Pubblichiamo di seguito un estratto dal volume “Tharros Felix 4”, a cura di Attilio Mastino, Pier Giorgio Spanu e Raimondo Zucca (Carocci Editore, 2011, Collana del Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, pp. 479, € 50,00).
Il contesto archeologico
di Alessandro Usai – L’insediamento di Sa Osa si trova nel settore settentrionale del Golfo di Oristano, a circa 2 km dall’attuale linea di costa e a circa 500 m dall’attuale corso del fiume Tirso. È un territorio in continua evoluzione, che ha subito nel tempo intense modificazioni legate alla dinamica fluviale, eolica e marina e alle attività umane.
Il sito è stato scoperto nel 2008, durante i lavori di costruzione della nuova strada provinciale tra Oristano e Cabras. Prima di allora, scarsissimi frammenti sporadici in superficie lasciavano intuire l’esistenza di un sito distrutto dai lavori agricoli, mentre al contrario si trattava degli unici elementi affioranti di un esteso insediamento sepolto sotto un metro di sedimenti fluviali più recenti. Gli scavi, finanziati dalla Provincia di Oristano, si sono sviluppati per più di otto mesi tra il 2008 e il 2009 sotto la direzione dello scrivente per la Soprintendenza Archeologica di Cagliari, con la collaborazione di Anna Depalmas dell’Università di Sassari e, per la parte geoarcheologica, di Rita Melis dell’Università di Cagliari.

L’indagine archeologica è stata particolarmente complessa, non solo per il suo carattere di emergenza in rapporto ai lavori stradali, ma soprattutto perché ha investito estesamente per la prima volta un insediamento nuragico senza nuraghe e quasi senza strutture murarie, per giunta con una serrata successione di fasi occupative e con dislivelli ridottissimi tra le rispettive superfici di frequentazione. Tutto ciò restituisce l’immagine di un insediamento di lunga durata in apparenza precario, comunque ben adattato all’ambiente instabile per le ricorrenti esondazioni e per i ciclici avanzamenti e arretramenti dei meandri fluviali, anzi specializzato nelle attività legate allo sfruttamento delle risorse locali con conseguenti rischi e opportunità.
Senza trascurare contesti ed elementi sporadici prenuragici, soprattutto della facies calcolitica Sub-Ozieri, il grosso dei contesti copre tutto l’arco di sviluppo della civiltà nuragica, dal Bronzo Medio al Bronzo Finale-Primo Ferro.
Il sito si articola in due settori separati dalla strada Rimedio-Torregrande: quello settentrionale corrisponde alla collinetta ad alluvioni grossolane antiche di Serra ’e Siddu, quello meridionale alla fascia pianeggiante di Sa Osa.

Nel settore settentrionale, fortemente eroso, lo scotico ha messo in luce il deposito alluvionale costituente il terrazzo, formato da materiale incoerente di varia granulometria. Soprattutto sulla sommità della collinetta sono state indagate numerose fosse e alcuni pozzi e pozzetti, tutti scavati nel substrato alluvionale e talvolta intersecantisi. Le fosse, di forma ellissoidale irregolare e dimensioni variabili, per lo più riconducibili a tre ordini di grandezza, hanno restituito abbondante materiale ceramico e una quantità di frammenti di argilla concotta con impronte di rami e canne, pertinenti al rivestimento delle pareti e delle coperture; quelle di modulo medio o grande si possono interpretare come fondi di ambienti destinati a funzioni abitative e produttive.
Diversamente, il settore meridionale si presentava quasi completamente ricoperto dai depositi archeologici ed era crivellato da fosse di piccole e medie dimensioni e da pozzi e pozzetti cilindroidi. Almeno una parte di queste cavità, create per diverse funzioni originarie (abitazione, cava di materiale, approvvigionamento idrico, ecc.), potrebbero essere divenute nel tempo discariche o riserve di viveri. I

In tutta l’area è emerso un solo gruppo di ambienti riconoscibili e connessi, costituito dagli edifici A e R e da alcuni spazi adiacenti: l’edificio A, unico con zoccolo in muratura, incompleto, composto da un ambiente di forma rettangolare absidata, probabilmente affiancato da un altro ambiente simile (S), fu ricostruito più volte nello stesso luogo durante il Bronzo Recente con l’impiego ora di conci di recupero in arenaria, ora di pietre calcaree informi e pezzi di macine in basalto, quindi fu demolito più volte dalle esondazioni del fiume e dal prelievo intenzionale delle pietre, infine fu tagliato da una fossa o pozzo del Bronzo Finale-Primo Ferro (B); l’edificio R, di pianta circolare, è costituito da un singolare impasto artificiale di argilla e granuli lapidei, e presenta una fossa (T) nella zona di raccordo con l’edificio A. Nello spazio circostante agli ambienti descritti sono stati recuperati abbondanti grumi d’argilla concotta derivanti dai rivestimenti interni degli ambienti, forse anche da mattoni crudi sottoposti a casuale cottura. Nella parte restante dell’area, intorno alle diverse cavità, sono emersi ampi tratti di suoli d’occupazione, non chiaramente riferibili a definiti spazi d’uso coperti o scoperti, con concentrazioni di materiale archeologico, focolari e piastre di concotto. In mancanza di strutture murarie, si può pensare che i diversi spazi fossero separati da palizzate o altri elementi vegetali; tuttavia sono state individuate pochissime buche di palo.
Nel settore meridionale, la prossimità del fiume Tirso e la superficialità della falda acquifera hanno determinato una persistente umidità dei depositi archeologici, soprattutto all’interno dei pozzi e pozzetti, creando una situazione ambientale particolarmente favorevole alla conservazione dei resti vegetali anche non carbonizzati. Le ricerche archeobotaniche sono condotte dal Centro di Conservazione della Biodiversità dell’Università di Cagliari. I frammenti di legno, i semi e i pollini rappresentano da un lato la vegetazione caratteristica della zona durante le età del Bronzo e del Ferro, dall’altro la varietà delle specie vegetali utilizzate dalla comunità di Sa Osa, fra le quali emergono specialmente le piante da frutto. La presenza di legno di diverse specie suggerisce che fosse attuata una scelta consapevole dei materiali più adatti alle specifiche esigenze di lavorazione. Sono in corso anche ricerche archeozoologiche, non ancora completate.
I pozzi U e V, contenenti materiali ceramici del Bronzo Medio avanzato o del Bronzo Recente iniziale, hanno restituito numerosi resti vegetali, quali orzo vestito (Hordeum vulgare), frumenti duri (Triticum durum), lenticchie (Lens culinaris), piselli (Pisum sativum) e fave (Vicia faba). Inoltre si documentano diversi frutti: more (Rubus ulmifolius), sambuco (Sambucus sp.), fico (Ficus carica) e uva (Vitis vinifera). Semi d’uva, prevalentemente di tipo selvatico o in fase iniziale di domesticazione, sono stati datati col C14 ai periodi 1303-1126 (pozzo U) e 1322-1191 a.C. (pozzo V) (datazioni più probabili calibrate a doppio sigma). Inoltre nel pozzo V sono stati recuperati alcuni frammenti di legno grezzo e lavorato, per lo più di fico. Tre di questi, non potendo essere datati col sistema dendrocronologico per la mancanza degli indispensabili anelli di accrescimento annuale, sono stati datati col C14; un elemento rivela un momento ancor più antico del Bronzo Medio (1548-1427 a.C.), mentre due hanno rivelato la presenza, non documentata dalle ceramiche, di materiali della prima età del Ferro (931-803 e 824-732 a.C.) (datazioni più probabili calibrate a doppio sigma).

Il pozzo N, contenente abbondantissimi materiali ceramici del Bronzo Recente avanzato, ha restituito una gran quantità di resti organici perfettamente conservati proprio a causa delle condizioni anaerobiche del deposito costantemente intriso d’acqua: molte ossa animali ancora in corso di studio, residui di pesci, frammenti di sughero, frammenti di legno grezzo e lavorato, semi di piante selvatiche come mirto (Myrtus communis), lentisco (Pistacia lentiscus), quercia (Quercus sp.) e ginepro (Juniperus oxycedrus), semi di frumento (Triticum aestivum/durum), olivo (Olea europaea), fave (V. faba), prugnole (Prunus sp.), more (R. ulmifolius), malva (Malva sp.), lino (Linum sp.), e infine semi di uva (V. vinifera), fico (F. carica) e melone (Cucumis melo).
I taxa più abbondanti erano uva e fico, che insieme rappresentano circa il 90% dei resti vegetali rinvenuti nel pozzo. I semi di melone (circa 50) sono molto più rari, ma sono straordinariamente importanti perché si tratta della più antica attestazione di questa specie nel Mediterraneo occidentale; poiché in Sardegna non si conosce una varietà selvatica autoctona, si può considerare probabile la provenienza del melone dal Mediterraneo orientale, cosa non strana se si considera il frammento di vaso miceneo IIIA2 o IIIB rinvenuto nel vicino insediamento nuragico di Su Murru Mannu, nell’ambito del centro fenicio-punico e romano di Tharros.
Questa prospettiva è richiamata anche dai semi d’uva del pozzo N, che indicano una fase di domesticazione più avanzata di quella attestata nei pozzi U e V; gli studi archeobotanici considerano probabile la coltivazione di una varietà a bacca bianca, ma non hanno ancora confermato la produzione di vino; del resto non è documentata la presenza di brocche, classica forma di recipiente adibita alla conservazione e al consumo del vino. Però i semi di fico, presenti in grandissima quantità, potrebbero indicare, oltre al consumo di frutta fresca o secca, anche un deliberato utilizzo per incrementare il tasso di zucchero nel processo di vinificazione. Due campioni di semi d’uva sono stati datati col C14 ai periodi 1285-1115 e 1276-1108 a.C., mentre un campione di semi di melone è stato datato al periodo 1297-1111 a.C. (datazioni più probabili calibrate a doppio sigma).
Tra i numerosi recipienti ceramici recuperati nel pozzo N si notano soprattutto olle sferoidali e tazze, ma anche teglie ampie e basse del tutto inadatte al prelievo dell’acqua; le condizioni del vasellame, in gran parte ricomponibile, non sembrano compatibili con lo scarto di recipienti rotti. Ciò suggerisce che il pozzo fosse impiegato non solo per l’approvvigionamento idrico, ma anche per la conservazione di viveri come carne, pesce e frutta. Resta da confermare la funzione di alcune probabili lucerne a piccola vaschetta concava su alto stelo, che potrebbero prestarsi a un utilizzo tanto pratico quanto simbolico; allo stesso modo resta da definire la casualità o l’intenzionalità della presenza di un vasetto miniaturistico di carattere votivo e di un crogiolo con incrostazioni di scoria di rame. Infine si ricorda un singolare strumento in osso con margine convesso denticolato.
Su alcune ceramiche del pozzo N sono state condotte analisi chimiche organiche rivolte a individuare i contenuti dei recipienti e a definire le condizioni e le funzioni del pozzo. Le pareti interne dei vasi hanno mostrato forti concentrazioni di marcatori vegetali, sia di preparazioni a base di piante o di conservazione di vegetali, sia di oli estratti. Su alcune delle possibili lucerne a piede sono state identificate tracce di combustibili oleosi degradati per riscaldamento. La diffusa presenza di tracce di escrementi e di acidi biliari indica un forte inquinamento dovuto agli scarti di organi digestivi animali.
In conclusione il pozzo N, utilizzato primariamente per l’approvvigionamento idrico, potrebbe aver avuto anche la funzione di conservazione del cibo, come era comune in Sardegna fino a qualche decennio fa, prima della diffusione del frigorifero; tuttavia non si può ancora escludere che almeno una parte dei semi possa essere finita nel pozzo in altro modo, caduta casualmente o gettata intenzionalmente. La presenza di uova di parassiti intestinali animali e umani solleva ancora altri interrogativi, in quanto contrasta con la necessità di mantenere il pozzo pulito per la finalità primaria dell’approvvigionamento idrico e per quella accessoria della conservazione di viveri.

In altri casi l’ipotesi dell’utilizzo primario o secondario di alcune cavità come riserve di cibo è stata pienamente confermata. Il pozzetto K, chiuso superiormente da una lastra di arenaria con foro circolare, era poco profondo e non poteva essere adibito all’approvvigionamento idrico; al contrario, esso ha restituito lo scheletro intero di un cervo maschio, scuoiato ma non macellato, evidentemente rimasto sigillato dai sedimenti fluviali a seguito di un’inondazione. Lo stato spugnoso e fragile delle corna con-sente di collocare l’evento alluvionale nella stagione primaverile. Gli scarsi frammenti ceramici assegnano il deposito del pozzetto K al Bronzo Finale o al Primo Ferro.
Per concludere, ricordo alcuni altri manufatti connessi con la produzione e la preparazione del cibo di origine marina, fluviale o lagunare. In primo luogo vi sono i pesi per reti da pesca in terracotta, di forma tubolare più o meno allungata, che si trovano in diversi contesti di Sa Osa dal Bronzo Recente al Primo Ferro. L’industria litica in ossidiana appare notevolmente impoverita rispetto alle produzioni prenuragiche, ma sembra adattata a specifiche funzioni come l’apertura delle valve dei molluschi. Infine si segnalano varie coppe di cottura, rinvenute soprattutto nella fossa B e risalenti alla prima età del Ferro, che con grande probabilità dobbiamo considerare strettamente associate alla cottura dei molluschi bivalvi presenti in grande quantità, soprattutto cardium.
Tutti questi rinvenimenti rivelano un’economia primaria mista e integrata, caratterizzata non solo dalle tradizionali attività di agricoltura estensiva, allevamento, caccia e pesca, ma anche da produzioni agricole intensive e specializzate che trovavano un ambiente ideale nella pianura alluvionale del basso corso del Tirso.
La sussistenza vegetale e la Vitis vinifera
di Mariano Ucchesu, Gianluigi Bacchetta, Oscar Grillo, Martino Orrù, Diego Sabato – Gli scavi archeologici condotti nel sito di Sa Osa, Cabras (OR), nei contesti inquadrati tra il Bronzo Medio e il Bronzo Recente, hanno permesso di recuperare diversi resti vegetali sia carbonizzati che imbevuti d’acqua. I dati mostrano un’agricoltura basata sulla coltivazione di orzi vestiti (Hordeum vulgare) e frumenti nudi (Triticum aestivum/durum), a cui si associano alcune leguminose quali fave (Vicia faba), piselli (Pisum sativum) e lenticchie (Lens culinaris). Anche nel Bronzo Medio le comunità mostrano un certo interesse verso i frutti selvatici quali il fico (Ficus carica) e l’uva (Vitis vinifera), documentati in grandi quantità all’interno dei pozzi di Sa Osa. Tra i frutti si documenta anche la presenza di semi di ginepro (Juniperus oxycedrus), probabilmente raccolto lungo le vicine spiagge di Oristano, dove cresce abbondante ancora oggi. La presenza di alcuni noccioli di olive potrebbe indicare un possibile utilizzo a scopi alimentari o per la produzione di olio. I frutti sono documentati dal rinvenimento di semi di fichi (F. carica), olive (Olea europaea), prugne selvatiche (Prunus spinosa), more (Rubus ulmifolius) e uva (V. vinifera). Il ritrovamento di semi di frutti spontanei nei contesti indagati testimonia l’utilizzo a scopi alimentari da parte delle comunità dell’età del Bronzo di diverse specie selvatiche, quali il lentisco (Pistacia lentiscus), il mirto (Myrtus communis) e la fillirea (Phyllirea sp.).

Tra i diversi resti vegetali rinvenuti nei pozzi U, V e N, riveste particolare attenzione, come detto più sopra, il rinvenimento di numerosi vinaccioli. La scoperta di una così grande quantità di semi di vite conservati nel contesto saturo d’acqua del sito di Sa Osa ci ha permesso di indagare lo stato di domesticazione delle uve durante l’età del Bronzo in Sardegna. L’analisi morfometrica ha permesso di dimostrare l’esistenza di somiglianze tra il materiale archeologico e le viti selvatiche e coltivate attualmente presenti in Sardegna. In particolare, i vinaccioli archeologici del Bronzo Recente hanno mostrato una maggiore affinità con le attuali uve coltivate, mentre i vinaccioli del Bronzo Medio sembrano possedere una morfometria ancora in parte simile a quelle delle uve selvatiche, trovandosi così forse ancora in uno stadio intermedio di domesticazione. Questo dato sembra testimoniare che la viticultura in Sardegna potrebbe essere iniziata durante il Bronzo Medio e proseguita durante il Bronzo Recente, quando lo stadio di domesticazione sembra essere completo.
Non sappiamo se le tecniche di coltivazione siano state introdotte dall’esterno o no, ma è possibile ipotizzare che i contatti con i navigatori e i mercanti micenei abbiano favorito quello scambio di informazioni utili alla diffusione delle tecniche agricole proprie della viticultura. Indipendentemente da ciò, i risultati che abbiamo presentato in questo lavoro forniscono la prova che la coltivazione della vite in Sardegna era già conosciuta durante il Bronzo Recente.
Diverse prove archeobotaniche unite alla genetica suggeriscono che processi di domesticazione secondaria possono essersi verificati nel Mediterraneo occidentale; tuttavia l’inizio effettivo della domesticazione della vite deve essere ancora accertato. Tra le diverse regioni indagate nel Mediterraneo occidentale, la Sardegna potrebbe essere stata un luogo ideale in cui potrebbero essersi svolti tali processi, grazie anche alla presenza diffusa della vite selvatica in quasi tutta l’Isola. Pertanto, è ragionevole ipotizzare che gli agricoltori del Bronzo Recente della Sardegna possano aver intenzionalmente selezionato le uve selvatiche per ottenere varietà coltivate.
Anche se siamo ancora lontani dall’avere una piena comprensione del processo di domesticazione della vite, ci auguriamo che questa ricerca possa stimolare nuove indagini in questo campo.
Tra i materiali vegetali del pozzo N, oltre all’eccezionale presenza di semi non carbonizzati di vite coltivata, sono stati recuperati anche circa 50 semi di melone (Cucumis melo). Questo ritrovamento rappresenta attualmente la più antica attestazione mai registrata nell’area del bacino del Mediterraneo occidentale. I semi di melone di Sa Osa costituiscono la prima prova dell’esistenza in Europa occidentale di questo taxon.
Infatti, come suggerito da studi precedenti, la coltivazione del melone potrebbe essere iniziata durante l’età del Bronzo nel Vicino Oriente e/o in Africa, anche se sembra aver svolto un ruolo marginale almeno fino all’età classica. Le prime attestazioni della coltivazione del melone provengono dall’Egitto; si tratta di alcune rappresentazioni grafiche datate alla seconda metà del II millennio a.C. Le più antiche testimonianze dirette invece sono rappresentate da alcuni resti archeobotanici segnalati nella stessa zona durante il Neolitico. I dati provenienti dal Vicino Oriente e dalla Grecia sono relativi a contesti inquadrati nelle età del Bronzo e del Ferro. Alcuni semi di melone di epoca romana sono stati recuperati in Italia, a Pompei. La presenza del melone in Sardegna durante l’età del Bronzo Recente suggerisce una sua introduzione nel quadro dei traffici e degli scambi che si svolgevano tra la Sardegna e varie regioni del Mediterraneo orientale, soprattutto con Cipro, regione in cui la coltivazione del melone era sicuramente già praticata in quel periodo.
Per gentile concessione degli autori e dell’editore.
Alessandro Usai si è laureato in Lettere Classiche e perfezionato in Archeologia all’Università di Cagliari; in seguito ha continuato la sua formazione presso la Scuola Archeologica Britannica di Atene. Dipendente del Ministero dei Beni Culturali dal 1991, è stato ispettore archeologo in Abruzzo fino al 1994. Attualmente è funzionario archeologo in servizio nella Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio di Cagliari. E’ incaricato per la ricerca, tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico della parte settentrionale della provincia di Oristano.
Ha diretto scavi, ricerche e restauri in diversi complessi nuragici: Nuracale (Scano Montiferro), Òrgono (Ghilarza), Tanca Suei e Tanca Perdu Cossu (Norbello), Losa (Abbasanta), Su Cùccuru Mannu (Riola), S’Urachi (San Vero Milis), Pìdighi (Solarussa), Sa Osa (Cabras), Su Sonadori (Villasor) e Antigori (Sarroch). Dirige i progetti di scavo e ricerca a Mont’e Prama (Cabras) e collabora ai progetti di valorizzazione ed esposizione delle sculture di Mont’e Prama nel museo civico di Cabras.