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Dalla storia alla moda: gli stazzi della Gallura

di mario
26 Ottobre 2020
in Cultura, In evidenza
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Stazzo gallurese.

Pubblichiamo di seguito il primo di una serie di interventi a cura di Quintino Mossa sugli stazzi galluresi.

di Quintino Mossa – La Gallura è una sub-regione della Sardegna che nella storia ha sempre presentato dei caratteri originalissimi. Un suo aspetto saliente, visibile ancor oggi nelle case rurali disseminate per il vasto territorio, è dato dall’aver avuto per secoli, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la somma degli abitanti sparsi nell’agro superiore a quella degli abitanti residenti nei villaggi e nelle cittadine, Tempio e Olbia incluse. Un insediamento originale definito dai geografi ad habitat disperso, basato su un modello produttivo pressoché autarchico, in cui cioè la produzione era quasi tutta destinata al consumo interno, ossia al consumo dei nuclei familiari che vivevano nelle piccole aziende agropastorali chiamate “stazzi”. Tanto che c’è chi parla di una “cultura degli stazzi”, arrivando persino a dire che possa tranquillamente essere definita come “civiltà degli stazzi”. Lo stesso termine “stazzo”, dal latino statio, luogo in cui si risiede, indica la casa al centro del podere, ma anche l’intera proprietà.

Un secondo aspetto, che ha la sua importanza, è dato dal fatto che il pastore gallurese, anche quando transumante, ha sempre avuto con sé la propria famiglia. È pur vero che l’insediamento sparso può essere paragonato alle masserie pugliesi o alle cascine lombarde, ma la differenza sta anche nella storia che ha dato origine a questo modello con forme e rapporti di produzione singolari. Ripercorrere questa storia, prendendo le mosse da lontano, aiuta a capire anche ciò che nei secoli è avvenuto in Sardegna. Partiamo dunque da lontano.

La conquista romana dell’Isola, che ebbe inizio nel 238 a.C., si concretizzò – finita la resistenza organizzata – con un solido controllo che si avvaleva di un sistema viario eccellente tale da consentire facili spostamenti di truppe e merci in ogni punto della Sardegna. Dal 38 a.C. tutta la regione venne profondamente romanizzata nella struttura sociale, nei sistemi produttivi, nella lingua, nella cultura. Tanto che ancora oggi il Sardo (almeno nella variante logudorese) è considerata la lingua romanza meno contaminata da apporti successivi e con evidenti tratti conservativi del latino classico; il sostrato nuragico essendosi ridotto alle indicazioni toponomastiche ed essendo quasi scomparso l’elemento punico, che pur aveva trovato larga diffusione per l’accentuata integrazione, soprattutto nelle zone costiere e nelle pianure retrostanti, tra i gruppi più attivi dei Sardi e l’etnia fenicio-cartaginese.

I Romani, introdussero numerose colonie e concessero la municipalità a diverse città, situazione che consentiva ai cittadini di Roma l’esenzione dai tributi e la piena proprietà della terra. Non dissimile era il trattamento per le città federate (alleate), nonostante tutto il territorio sardo fosse considerato proprietà del popolo romano (ager publicus populi romani). I migliori terreni arativi costituivano l’essenza per gli estesi latifondi (latifundia) privati e imperiali. Il centro di ognuno d’essi era costituito dalla villa, dai magazzini e dalle case (vici) di abitazione del personale – liberi e servi – da cui spesso si svilupparono i villaggi medievali (biddas).

All’interno dei latifundia si produceva tutto ciò che era utile per vivere. Molta importanza veniva data in Roma al grano sardo, che era necessario per alimentare l’esercito e la plebe romana. Allo stesso tempo si limitò l’introduzione o l’estendersi di altre colture, come pure si arginò la tendenza della pastorizia a espandersi, per privilegiare la insostituibile cerealicoltura. Ma l’Impero Romano, nella sua parte occidentale, dopo successive crisi e dopo gli sconvolgimenti europei dovuti principalmente alle invasioni dei popoli orientali, si spegneva nel 476. Sulla Sardegna si estese, per ancora mezzo millennio circa, la pallida autorità di Bisanzio che non seppe tuttavia garantire pienamente l’autonomia e la libertà dei Sardi da fugaci incursioni barbariche e, successivamente, dai ripetuti assalti dell’Islam. La debole influenza dell’Impero Orientale sulla Sardegna – nonostante la cultura greco-bizantina fosse penetrata profondamente a modificare l’organizzazione civile e la religiosità dei Sardi – cessò del tutto in una data imprecisata degli oscuri secoli medioevali, così che i Sardi dovettero, da quel momento, ricostruire autonomamente la propria organizzazione interna e mettersi in condizione di fronteggiare i pericoli esterni.

Il modello statuale che emerse vide la divisione dell’isola in quattro Regni o Giudicati, soluzione che affonda le sue radici nei secoli oscuri, quasi fosse esistita da sempre e non si trattasse invece della formazione di unità amministrative complesse, succedanee e sostitutive del governo bizantino. Pare che i quattro governatorati originino dalla famiglia Lacon Gunale che aveva accumulato nelle proprie mani l’autorità delle cariche di Arconte e di Protospatario: dignitario che godeva della fiducia dell’Imperatore d’Oriente e che perciò aveva obblighi e doveri attenuati; in una parola, si trovava in una condizione di autonomia. Il termine di Iudex Sardiniae o Giudice compare nei documenti del IX secolo ed è l’equivalente latino del termine greco Ipatos (Console) cui spettavano ampi poteri civili e giudiziari, oltre che militari. L’intitolazione di Giudice appare comprensiva anche del termine Praeses che, a sua volta, era l’esito nominale e sostitutivo di Prefetto del Pretorio (che in origine aveva sede in Africa). L’Ipatos che di tali Prefetti era l’erede, aveva anche, come visto, il titolo di Arconte di un distretto o comandante e uomo di governo al quale era data ampia autonomia nella potestas. E’ interessante notare come il titolo Arconte venisse reso in Latino con l’espressione Iudex Loci dove la parola Locu venne usata più tardi come sinonimo di Rennu, regno, e associata allo stesso concetto di potestas.

Dunque, Protospatario, Ipatos, Arconte, Praeses, Iudex Loci o Judike. L’autonomia, nata dall’isolamento, aveva condotto a un’affermazione d’indipendenza che riconosceva solo vincoli di cultura, di tradizioni e costumi che legavano i Giudici a Bisanzio, insieme a un senso di rispetto per la grandezza dell’Impero. Probabilmente la famiglia Lacon Gunale divise la Sardegna in quattro mereie o “parti” o “luoghi”: Cagliari, Torres o Logudoro, Arborea, Gallura, per un miglior controllo del territorio, dando luogo a quattro Giudicati autonomi e indipendenti l’uno verso l’altro, pur avendo le famiglie giudicali una comune ascendenza.

Il Giudice – o Regolo o Donno – era un sovrano assoluto ed esercitava il potere regio coadiuvato da una “Corona de Logu” composta da prelati e maggiorenti del Regno. Dal Giudice dipendeva direttamente il braccio armato o armentariu de Logu. Ogni Giudicato era diviso amministrativamente in Curatorie, a capo di ciascuna delle quali era chiamato un Curatore che aveva col Giudice rapporti di vassallaggio. Ogni Curatoria si divideva in ville – villaggi – (biddas), dove un tempo i Romani avevano stabilito i latifondi, a capo di ognuna di esse stava il Maiore de Villa, chiamato alla carica dal Curatore. Il pericolo dal quale ci si doveva difendere era rappresentato dall’aggressività predatoria dei pastori che, dalle montagne attorno al piano, scendevano periodicamente a compiere razzie (“bardane”).

Stazzo Manzoni a San Pantaleo.

Quando le protezioni imperiali scomparvero, il conflitto tra pastori e contadini – altrove cessato da secoli – divenne così drammatico che toccò agli stessi agricoltori organizzare la propria difesa, istituendo consuetudini originali e severe scandite da un sistema rigoroso della vita del villaggio affidato alle pratiche dell’agricoltura comunitaria: chi vuol beneficiare della protezione collettiva deve coltivare con gli altri. La difesa delle terre più vicine al villaggio che bisognava difendere, perché rigorosamente indispensabili alla vita degli abitanti è affidata alla sorveglianza comune o scolca: una sorta di milizia armata con obblighi di servizio civile. Ogni giovane, dal quattordicesimo anno d’età, era in obbligo di farne parte, restandovi fino al compimento del settantesimo anno: un sistema di difesa comunitario talmente efficace da esser vissuto per un millennio. La discesa dei pastori al piano era vista con terrore, come fosse l’avanzata di un esercito di predatori, poiché la pastorizia viveva e vive sulla cancellazione dell’agricoltura.

Agli inizi del secondo millennio del nostro Evo cristiano, Pisani e Genovesi – garantendo la copertura delle loro flotte a difesa dell’incolumità della Sardegna – avviarono una colonizzazione strisciante, attraverso l’accorta politica matrimoniale delle grandi famiglie toscane e liguri che, sposando i discendenti delle schiatte giudicali, divennero le vere eredi dei privilegi giuridici e fiscali spettanti per lunga consuetudine ai veri sovrani dell’Isola, dopo l’eclisse dell’autorità bizantina: i Giudici.

La “Carta de Logu“ (1395) della valorosa Giudichessa Eleonora di Arborea, unico monumentale documento normativo scritto in epoca giudicale, evidenzia un paesaggio agrario dominato dalla proprietà collettiva delle terre e da un sistema di sfruttamento del suolo a rotazione forzata. Anzi, sancisce una regolamentazione severa, analitica e rigorosa dei rapporti di produzione agricola.

La parte di terreno seminata e ripartita, in campi aperti e difesi collettivamente, tra coloro che si offrivano di seminarla, era chiamata vidazzòne, al cui centro stava la villa (il villaggio) con limitatissimi spazi, serrati da muro o siepe, destinati all’orticoltura o all’impianto di vigneti, ascrivibili al possesso individuale. Le terre che riposavano dopo la coltura (maggese), aperte al pascolo comune degli animali domestici e da lavoro, erano dette paberile. I luoghi impervi e lontani dalla villa (bidda), difficilmente controllabili dalle comunità rurali, erano i salti, in parte sottoposti agli istituti comunitari, in parte territorio demaniale dello Stato o “de su Rennu” e costituenti – dopo la conquista spagnola – dominio dei feudatari per il cui uso veniva pagato un tributo col quale si autorizzavano pastori, servi e sudditi a farvi pascolare greggi, raccogliere ghiande, legna e frutti dei boschi. Diritto denominato ademprivio, forse da ad rem privium, cioè diritto o privilegio a godere di una cosa. Questa tripartizione fondamentale nasceva dall’esigenza di difendere le colture vitali contro le greggi e i pastori transumanti.

La “Carta de Logu” dà ordini precisi: «… i caprai dovranno tenere le capre in montagna in qualunque periodo, le greggi di pecore non dovranno entrare né nel prato riservato agli animali da lavoro (paberile), né sulle superfici seminate a grano (vidazzone)… [i capi] che vi si sorprenderanno potranno essere abbattuti…». Si ordinava di recintare scrupolosamente orti e vigne, ma, in vista di una loro difesa comunitaria, al contrario per i campi seminati si dava disposizione rigorosa affinché fossero lasciati aperti. Solo così la forza collettiva del villaggio era motivata a opporsi alle minacce sempre presenti dell’allevamento nomade.

Chi, invece, spinto dall’indigenza e dalla marginalità, avesse voluto seminare nei salti, avrebbe dovuto farlo nella piena consapevolezza di non poter beneficiare della protezione collettiva e di restare esposto al pericolo degli assalti e delle devastazioni. Poiché bisognava accontentarsi della terra che era possibile difendere, nei salti lontanissimi dalle ville – in un universo ostile, dove cominciarono a comparire campi recintati da coltivatori stanziali, ritagliati come radure tra il verde dei boschi – l’autorità comunistica del villaggio restava inoperosa e indifferente.

Stazzo Lu Furracu a Bassacutena.

Tuttavia, in Gallura, questo popolamento diffuso, questo fenomeno dispersivo della popolazione, questo radicamento di nuclei e famiglie contadine e pastorali su luoghi e lande altrimenti inospitali e selvagge, è piuttosto vistoso. Chi sono questi abitanti avventurosi, a lungo errabondi prima di diventare stanziali, che cercano un’occasione migliore di vita, lontani dai popolosi villaggi? Spesso la mancanza di solide strutture di un’agricoltura incapace di dominare la natura e trasformare – secondo esigenze di sicurezza e crescita economica – il paesaggio agrario, peggiorata dal prelievo forzoso del quale beneficiavano molti potentes, attraverso un drenaggio fiscale ininterrotto e implacabile, spingeva i contadini a rifugiarsi sulle montagne, dove era garantita una maggiore autonomia e l’integrazione possibile tra allevamento e agricoltura.

Il popolamento della Gallura ha, fondamentalmente, questa origine. Il Fara, nella sua analitica “Corografia“ (pubblicata nel 1586, durante il duro dominio spagnolo) ci descrive questa regione come completamente deserta. Tutta la sua popolazione era concentrata in poche grosse borgate, autosufficienti nel loro isolamento e lontane dal mare infido.

Contadini e pastori intrepidi, a loro rischio e pericolo, si allontanarono dai villaggi (Tempio, Luras, Calangianus, Aggius, Nuchis, Bortigiadas) e – spinti dalla miseria o per sfuggire ai condizionamenti sociali – nel tentativo di sfruttare i vasti spazi lasciati liberi nei salti delle regioni marittime, si distribuirono a popolarli creandovi i primi nuclei di possesso rigorosamente individuale. Ritagliarono, usando le concessioni dei feudatari più avveduti che le consentivano, porzioni di terra che sottrassero allo sfruttamento collettivo e agli ademprivi, difendendole in seguito contro le tardive rivendicazioni dei villaggi e il ritorno dei feudatari. Già in epoca giudicale, uomini affrancati (culvertos) – che rimanevano legati ai proprietari da prestazioni lavorative o assoggettati a censi – e uomini liberi – che tuttavia si mettevano sotto la protezione dei potentes – ottenevano un usufrutto sulle terre (a mandicare) o una colonìa sui lontani terreni demaniali dei salti, dove maturavano un qualche diritto al possesso derivante dalla forma contrattuale della concessione (terrales de fictu).

Tali assegnazioni, molto frequenti in Gallura, furono di due tipi: la cussorgia e l’orzalina. La cussorgia (dal Latino cursoria) era lo spazio di territorio originariamente riservato al percorso delle greggi e si esercitava su un agro vasto centinaia di ettari. L’orzalina (dal Sardo orzu), molto più piccola, era una concessione per la coltivazione. Quando le due concessioni erano date insieme, l’accesso al territorio ottenuto veniva proibito alle altre greggi. Il pastore, al centro della sua orzalina, a sua volta al centro dei pascoli della cussorgia, aveva delle ricchezze da proteggere: il suo grano, i suoi strumenti da lavoro e la casa in muratura che rimpiazzava la primitiva capanna.

La concessione divenne subito stabile, perché l’orzalina costituiva di fatto un vero e proprio possesso personale, divenuto proprietà privata ben prima dell’«Editto sulle Chiudende» (1820), avendo consentito l’insediamento definitivo dei pastori-contadini nelle loro terre, dove le greggi estranee erano rigorosamente escluse. Costoro divennero rapidamente gli ammirati pastori degli stazzi, autori spesso di avventurose appropriazioni individuali, tuttavia riconosciuti ufficialmente anche dalla “Corona di Spagna” contro le tardive recriminazioni dei villaggi che si vedevano negato il diritto alla coltivazione nelle vidazzòne. Le antiche orzaline divenute stazzi erano zone di sfruttamento individuale che ripetevano strutturalmente l’organizzazione dei villaggi: al centro del possedimento l’abitazione; tutt’attorno vigne, orti, campi seminati a frumento; più lontani i campi incolti lasciati al pascolo brado per lungo periodo, in linea di principio destinati a pascolo comune. Quasi a ripetere la tripartizione in vidazzòne, paberile, salto. In quelle solitudini, tutti coloro che gravavano pesantemente sui redditi agrari (signori, proprietari, ecclesiastici, legulei, usurai) erano lontani e le loro volontà scarsamente efficaci; persino le tasse e i gravami feudali erano dimenticati e ciò esaltava la consapevolezza di libertà del pastore-contadino e rafforzava la sua capacità organizzativa. Popolamento sostenuto anche da una robusta immigrazione corsa, poiché se numerose famiglie di pastori praticavano la transumanza sulle coste sarde e sulle vicine isole minori, altri si sottraevano alle catene delle vendette o cercavano condizioni di vita migliori. Molti praticavano il contrabbando, sostenuti, con vantaggio reciproco, dai pastori locali. L’integrazione è stata facile, perché le due comunità parlavano un lingua affine.

Agli inizi del XIX secolo la nuova fisionomia della Gallura era fissata. Negli stazzi che punteggiano festosi le solitudini di Gallura, fino ai primi decenni di questo secolo risiedeva una popolazione superiore a quella raggruppata nelle ville interne (li ‘iddi di supra).

L’esempio felice della Gallura con le sue aziende miste, agricole e pastorali, servì sempre d’argomento a quanti videro nel possesso individuale lo stimolo più efficace per il progresso economico e sociale. Il termine stazzo – divenuto usuale dopo che per un certo periodo si erano usati pure estazu e stazio – è certamente derivato dal Latino statio (pronuncia stazio): cascinale, casa di campagna. Infatti, originariamente indica la casa, poi estensivamente include l’orto, la vigna, il pastoricciale, i tancati circolari vicini alla casa, fino a coincidere con l’intera proprietà recintata.

Quanto esposto con scrittura rapida, ha impiegato a realizzarsi decenni o, per alcuni studiosi, secoli. Di tante trasformazioni quasi nulla è rimasto nella coscienza storica individuale e collettiva. Nessuno ha più memoria delle traversie pionieristiche degli addomesticatori dei salti: la gestione collettiva dei fondi rustici è oggetto di una tal profonda dimenticanza che gli stessi relitti toponomastici dei tancati, ancora oggi chiamati la ‘itazzona, sono semplici suoni senza significato alcuno. (Segue)

 

Quintino Mossa

Quintino Mossa, laureato in Pedagogia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha insegnato per decenni in tutti gli ordini e gradi della scuola pubblica. Per incarico del Ministero per gli Affari Esteri è stato dirigente scolastico con compiti di promozione per la conoscenza e la diffusione della Lingua Italiana nella Patagonia argentina andina. Da tempo si interessa di raccontare il complesso delle tradizioni della Gallura, per conservare e valorizzare quelle a rischio di oblio.

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Controcampo da Porto Rotondo

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