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Il Retablo di Ardara, uno specchio della società di fine Quattrocento in Sardegna

Un autentico tesoro rinascimentale conservato nella basilica di Santa Maria del Regno ad Ardara (SS)

di Redazione
19 Agosto 2020
in Cultura, In evidenza
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Pubblichiamo di seguito l’intervento a cura della professoressa Alessandra Pasolini estratto dal volume “Il Retablo Maggiore di Ardara. Cinquecento anni di storia, arte, fede. Atti del Convegno di Studi, Ardara, 25 settembre 2015” a cura di Tonino Cabizzosu e Demetrio Mascia (Carlo Delfino editore, 2018, pp. 224).

di Alessandra Pasolini – Non sono molti i centri sardi che come Ardara conservano ancora in situ i loro polittici, tanto meno nelle ragguardevoli dimensioni che raggiunge la maestosa struttura pensata come fondale architettonico e scenografico della basilica di Santa Maria del Regno, antica cappella palatina del giudicato di Torres. In questo articolo si intende proporre una lettura del Retablo di Ardara come fulcro visivo e macchina scenica in stretto rapporto con l’azione liturgica e in tal senso palese riflesso della società della fine del XV secolo, che accettava l’uso dell’immagine religiosa a scopi pedagogici e devozionali. Attraverso ricorsi persuasivi ed emozionali, con il ricordo dei patimenti di Cristo, la crudezza nei dettagli realistici, la partecipazione patetica e l’affettuoso richiamo alla dolcezza dei sentimenti, si otteneva con maggiore facilità l’effetto di coinvolgere e suggestionare il popolo dei fedeli, riunito nelle chiese per partecipare alla liturgia eucaristica e agli altri riti, o per seguire la predicazione di sacerdoti, religiosi e missionari.

I dipinti e le sculture inseriti nei retabli o polittici, arredi ecclesiastici strutturati secondo precisi canoni di chiarezza formale ed espositiva, raccontavano la storia di Cristo e la sua passione, la vita di Maria, dei santi e dei martiri, come testimoni del vangelo e modelli concreti da seguire per tutti i cristiani. Un pubblico, spesso di illetterati, vi trovava esposti con chiarezza i contenuti dogmatici da seguire per non allontanarsi dalla via della fede e stimoli visivi di meditazione spirituale. Secondo Ernst Gombrich, esistevano due livelli di lettura dell’opera, quello narrativo e quello simbolico, i cui significati non risultano sempre chiari ed evidenti ma vanno attentamente analizzati e decodificati.

E’ stato giustamente sottolineato da Benedetto Caltagirone che non esiste per la Sardegna una fonte straordinaria come il Mittelalterliches Hausbuch (Libro di casa del Medioevo), manoscritto riccamente illustrato da un ignoto maestro renano intorno al 1480, conservato in Germania a Schloss Wolfegg, presso Ravensburg, utilizzato per ricostruire la vita di un cavaliere medievale da Norbert Elias (1969). In realtà l’autore del manoscritto rappresenta la vita al tramonto del Medioevo: interessato alla guerra e alle sue pratiche, raffigura con accuratezza spedizioni militari soldati e ordigni bellici, ma anche la vita quotidiana di cavalieri e dame all’interno di castelli e giardini in immagini mirabili.

E’ vero però che i retabli sardo-catalani del XV-XVI secolo sono una fonte iconografica di primaria importanza per la storia dell’arte isolana, inesauribile risorsa di riletture e approfondimenti tematici: un esempio fra tutti, lo scomparto di predella nel Retablo di S. Eligio (Cagliari, Pinacoteca Nazionale), che rappresenta il santo patrono degli argentieri al lavoro nella sua bottega, ricca di prodotti della sua arte da orafo. Su questa falsariga alcuni anni orsono la Soprintendenza di Cagliari organizzò una mostra, dal titolo Modelli reali per oggetti dipinti, individuando un itinerario all’interno del percorso espositivo della Pinacoteca in cui ai retabli esposti erano affiancati oggetti reali, d’uso liturgico o quotidiano, analoghi a quelli usati come modello dai pittori: lampade, brocche, croci e pastorali, ecc.

Il Retablo Maggiore di Ardara, Santa Maria del Regno, Ardara.

Di fronte al grandioso Retablo di Ardara balza agli occhi che le tavole dipinte compongano una sorta di corona misterica intorno alla statua di Santa Maria del Regno, titolare della chiesa. La Madonna è regina dei cristiani in un modo tutto speciale, in senso spirituale e mistico; anche il centro di Ardara ha scelto lei come celeste patrona. Qui tuttavia l’intitolazione allude alla storica funzione della chiesa come cappella palatina, ma anche al fatto che la Vergine era considerata dai re cattolici la protettrice della monarchia iberica.

Se facciamo riferimento alla corona del rosario, le scene rappresentate negli scomparti pittorici fanno riferimento ai Misteri gaudiosi e ai Misteri gloriosi. Si tratta delle cosiddette “Gioie” della Vergine Maria (Annunciazione, Natività, Adorazione dei Magi, Ascensione, Pentecoste e Transito della Vergine), rappresentate anche nella predella del Retablo di Villamar da Pietro Cavaro nel 1518 (Villamar, parrocchiale) e in un perduto polittico di Sanluri, dove – secondo la descrizione della visita pastorale del 1577 – erano abbinate ai SS. Cosma e Damiano, già titolari della chiesa oggi dedicata alla Madonna delle Grazie.

Gli episodi vanno letti circolarmente in senso antiorario, partendo dall’alto: troviamo al centro la Nascita della Vergine, non narrato nelle fonti canoniche ma in testi apocrifi come il Protovangelo di Giacomo, a sinistra l’Annunciazione, la Natività di Gesù, con l’annuncio degli angeli ai pastori, l’Adorazione dei Magi; a destra la Resurrezione di Gesù e la sua discesa agli Inferi (a sinistra) e le Pie donne al sepolcro (a destra), l’Ascensione al cielo, la Pentecoste; al centro il Transito della Vergine, preannunciato dall’arcangelo Gabriele, come racconta Jacopo da Varagine nella Leggenda Aurea. Si tratta di episodi descritti con gusto narrativo e aneddotico, caratterizzati dalla vividezza dei colori e da una marcata linea di contorno, che segnala i numerosi prestiti dalle stampe nordiche.

Anche se i temi rappresentati sono di natura prettamente religiosa, non mancano tuttavia i riferimenti alla realtà quotidiana, prima di tutto i grandi eventi che necessariamente segnano l’inizio e la conclusione della vita umana: la nascita e la morte. Certamente rappresentativo della vita religiosa e devota del tempo, il Retablo di Ardara non è però distante anche dalla vita quotidiana, rappresentata negli ambienti, negli arredi e negli oggetti, nelle vesti dei personaggi e nei complementi del loro abbigliamento.

San Cosma  (foto M.Salis).
San Damiano, (foto M. Salis).
San Damiano (part. foto M. Salis).

Se prendiamo in esame la predella, vi troviamo rappresentati alcuni oggetti interessanti. San Cosma, medico e taumaturgo dalla lunga veste, tiene in mano una cassettina porta-unguenti di forma rettangolare, che trova confronti in area sarda con contenitori per olii santi del XVI secolo. Nello studio di San Damiano, medico, rappresentato mentre osserva un liquido ambrato (urina?) entro una ampolla di vetro trasparente, troviamo appeso alla parete un contenitore porta-occhiali, attributo caratteristico di San Giacomo della Marca, raffigurato spesso con questo oggetto appeso alla cintura, come fa Carlo Crivelli (1477). I due santi indossano lo stesso genere di calzature: delle pantofole o pianelle montate su alte suola in sughero o legno, di cui si conservano rari esemplari femminili del XVI secolo, arricchiti da ricami o intarsi (Reggio, Galleria Parmiggiani; Milano, Civiche Raccolte d’Arte Applicata). San Gavino è raffigurato a cavallo, con una veste in sontuoso broccato, e reca in capo una berretta rotonda in velluto color verde bosco su cui spicca una spilla, come San Damiano.

I volti di San Gavino e San Damiano (foto M. Salis), posti a confronto con ritratti illustri.

Questa moda è attestata dalla fine del XV secolo in ritratti di personaggi d’alto lignaggio, come Ludovico il Moro duca di Milano (1491-94), Enrico VII sovrano d’Inghilterra (1485-1509), Carlo VIII (1483-98) o Luigi XII (1499-1515) re di Francia, che vi inserivano riferimenti araldici alla propria casata o pietre preziose che si prestavano a interpretazioni di natura simbolica.

San Nicola è presentato stante in vesti vescovili con una mitria in damasco bianco sul capo; Santo Stefano invece indossa la dalmatica o tunicella tipica veste liturgica da diacono, seduto contro un drappo di cui è stato possibile ricostruire lo schema grafico della decorazione, basata sulla ripetizione di motivi floreali che sembrano garofani stilizzati, per la quale non sono stati ancora individuati convincenti confronti con tessuti reali.

Santo Stefano (foto M. Salis). Schema grafico del tessuto di fondo (disegno di D. Tomasi).

Ai motivi tessili della ricca coltre distesa sul letto nell’episodio del Transito della Vergine nel Retablo di Ardara è praticamente sovrapponibile lo schema del manto della Vergine in trono nel Retablo di Tuili, opera del Maestro di Castelsardo, nei disegni di Daniele Tommasi.

Gli apostoli che circondano Maria reggono un turibolo, un aspersorio e un secchiello per l’acqua benedetta, la cui forma a vera di pozzo con manico mobile ricorda esemplari del XVI secolo. Due di loro in ginocchio pregano i salmi, tenendo in mano un libro dove si legge In exitu Israel de Egipto (Sl 114, 1-2), che significa:

Morte della Vergine (foto M. Salis). Dettaglio del tessuto che copre il letto della Vergine, analogo allo schema grafico del tessuto del Retablo di Tuili (disegno di D. Tomasi).

Quando Israele uscì dall’Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, salmo cantato nei Vespri della domenica.

Tra gli scomparti maggiori, rappresenta un interno domestico la tavola con la Natività della Vergine. Entro un’alcova limitata da tendaggi riposa la puerpera, Anna, madre di Maria; intorno a lei si affaccendano sette donne, tre impegnate a portarle cibo e bevande per farle riacquistare le forze dopo la fatica del parto e altre quattro che si prodigano intorno alla bambina per condurre panni, scaldarli al fuoco del braciere acceso e a piegare le fasce.

Tra gli oggetti si riconoscono un cesto in vimini intrecciato per la biancheria e utensili in peltro di gusto nordico, tra cui un boccale a casco e un altro dorato, con coperchio.

Natività della Vergine (foto M. Salis)

Per quanto concerne le vesti femminili, il busto era normalmente separato dalla gonna da un taglio in vita che spezzava la figura a metà e la gonna si espandeva attraverso ampie pieghe che richiedevano grandi quantità di tessuto. Nel caso di Ardara per le vesti delle serventi è utilizzato un tessuto non operato a tinta unita (verde, ocra e altri colori neutri); il capo delle donne è coperto da veli, acconciati in modo diverso, talvolta dai bordi ricamati. Le maniche, amovibili, erano unite all’abito tramite dei nastri; secondo la moda rinascimentale, da dei tagli praticati sul tessuto fuoriuscivano sbuffi delle camicie sottostanti, come nel Ritratto di Giovanna Tornabuoni del Ghirlandaio del 1480 (Firenze, S. Maria Novella) o in quello di Eleonora d’Aragona del Pinturicchio del 1502-09 (Siena, duomo, Libreria Piccolomini).

Dettaglio delle maniche nelle vesti femminili (foto M. Salis), posti a confronto con ritratti rinascimentali.

Le finestrelle aperte lungo il braccio e all’altezza del gomito facilitavano il movimento del braccio, sfruttando l’effetto dei lini sbuffanti per motivi decorativi. Questa tendenza italiana è accolta in territorio iberico negli ultimi decenni del ‘400.

Nello scomparto della Adorazione dei Magi, tra gli oggetti portati in dono a Gesù sono riconoscibili ricche suppellettili sacre inerenti il rito eucaristico o altre liturgie, come una grande coppa dorata esalobata, una pisside ed un incensiere a castelletto architettonico, tipici del gusto tardogotico, per i quali sono possibili innumerevoli confronti con oggetti reali.

Particolari de L’adorazione dei Magi (foto M. Salis), posti a confronto con arredi liturgici del XV secolo.

In età rinascimentale si dava estrema attenzione al rapporto equilibrato tra l’abbigliamento, lo status sociale e l’età delle persone. I Magi sono presentati come personaggi regali: indossano sontuose vesti in velluto di seta broccato in oro, composto da mantello manicato a scollo quadrato, divenuto di moda alla fine del XV secolo, sopravvesti e sottane con maniche intercambiabili, da cui fuoriesce la camicia sottostante; berrette con larga tesa ornati da corone o spille. I motivi tessili di grande rapporto, che avevano contrassegnato la produzione serica quattrocentesca e risposto alle forme ampie e panneggiate delle vesti del periodo, perdurano per tutto il ‘400 fino ai primi decenni del ‘500; tra i motivi si prediligono melagrane, palmette e tralci fioriti. Per un raffronto con i tessuti del tempo, è stato studiato lo schema decorativo delle vesti funebri, in damasco di seta, dei re di Napoli Ferdinando I, 1494 circa, e Ferdinando II d’Aragona, 1486 circa, entrambi sepolti nella chiesa di S. Domenico maggiore a Napoli.

Particolari de L’adorazione dei Magi (foto M. Salis), posti a confronto con arredi liturgici del XV secolo.

In particolare, le calzabrache scaccate di uno dei Magi sono realizzate con tessuti presenti anche nel Ritratto di giovane gentiluomo di Bartolomeo Veneto (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica) o nel Cavaliere di Vittore Carpaccio del 1500-01 (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza). Per quanto riguarda invece la particolare foggia delle calzature, fu Carlo VIII di Valois, re di Francia (1470-98), a lanciare la moda delle scarpe dette À bec de cane (a becco d’anatra) dalla loro forma quadrata, diffuse anche in Germania.

Nonostante siano presentati come dei re, i Magi si levano le corone dal capo di fronte a Gesù in segno di umiltà e si inginocchiano ad adorarlo, mostrando con gesti eloquenti di riconoscere in lui il vero re delle genti: in particolare uno dei personaggi indica il medaglione con il volto di Gesù gli pende sul petto mentre un altro sullo scollo della veste reca la scritta: Adoremus te rex Iudeorum. I soldati sono in armatura metallica e portano elmi di varia tipologia, tra cui si distinguono morioni e borgognotte; a sinistra, l’unico armigero che non indossa un’armatura completa ma ha sul capo un turbante orientale e un casco piumato, sembra una via di mezzo tra un musulmano e un lanzichenecco protestante, con le sue calzebrache giallo/arancio, le scarpe a punta quadra e la lancia con puntale a picca, simile alle alabarde.

E’ assai probabile che la scelta delle immagini della vita di Maria e di Gesù, da rappresentare negli scomparti del Retablo di Ardara, provenga da una precisa indicazione del committente dell’opera, l’arciprete Joan Cataholo, il cui nome risulta nell’iscrizione sul tabernacolo e che si fece ritrarre in ginocchio davanti alla Vergine nello scomparto centrale, forse sulla traccia di stampe, come per esempio l’incisione di Francesc Domenech, Virgen del Rosario y los quince misterios, 1488 (Madrid, Biblioteca Nacional), o di qualche manuale di devozione. Il Cataholo, uomo colto e benestante, con molta probabilità poteva disporre nella sua biblioteca di libri di orazione, manuali per la predicazione e testi agiografici sulla vita di Gesù, della Vergine e dei santi, necessari al suo ministero.

Nella vasta produzione di letteratura devozionale del XV secolo, non sappiamo quanto disponibile in Sardegna, molti testi furono pubblicati a Barcellona, Valencia e Siviglia, città sedi di una fiorente attività editoriale. Proprio a Siviglia nell’anno del giubileo 1500 fu scritto il poema cristologico Retablo de la vida de Cristo, opera del certosino Juan de Padilla (1468-1518), che riscosse un grande successo editoriale dato che, a partire dalla prima edizione del 5 marzo 1505 da parte dell’editore tedesco Jacob Cronberger, ne conobbe altre venti nel corso del secolo. Basato sui quattro vangeli e sui testi patristici, il poema è visivamente arricchito da molte illustrazioni xilografiche, che consentono il raffronto tra testo figurato e quello poetico, che mantiene una impostazione letteraria da sermone. Gli episodi scelti come esercizio di meditazione spirituale sono assimilati alle tavole di un retablo.

Qui interessa sottolineare non solo la vicinanza cronologica alla realizzazione del Retablo di Ardara, ma proprio il fatto che l’autore proponga la vita di Gesù, di Maria e di Giovanni il Battista, come una sorta di pittura verbale di un singolare polittico a quattro scomparti. Non intendo proporre il confronto stilistico tra le illustrazioni del volume e quelle dipinte, quanto le corrispondenze tematiche. Il libro infatti presenta in apertura la testa mozzata del Battista e chiude con la Veronica, entrambe immagini presenti anche ad Ardara, come molte delle scene evangeliche illustrate.

A loro volta, le vivaci scene dipinte negli scomparti del Retablo di Ardara, imponente per dimensioni tanto da costituire una quinta scenica ideale per la liturgia eucaristica e per le sacre rappresentazioni, potevano servire ai predicatori per prendere spunto dalla vita di Maria o dei santi, secondo le più efficaci tecniche comunicative dell’oratoria sacra.

Se l’enfasi narrativa e l’accento patetico sulle sofferenze di Gesù e della sua madre s’integravano al teatro sacro della messa, adattandosi alle esigenze della pietà popolare, come si giustifica il ricorso alla quotidianità? Sappiamo che i Francescani e gli altri ordini mendicanti all’uso del Latino preferivano il volgare e un linguaggio semplice per dare maggiore efficacia alla loro predicazione e facilitare la comprensione da parte dei fedeli. Nella predicazione popolare erano inoltre frequenti i riferimenti alla vita quotidiana e, per ravvivare l’attenzione dell’uditorio, era consentito l’uso di facezie e battute di spirito.

Dobbiamo dunque immaginare una sorta di sintesi tra la predicazione, la contemplazione delle immagini dipinte e la rappresentazione teatrale nell’intento di divulgare il messaggio del vangelo, di smuovere gli affetti e di persuadere l’uditorio.

Il rapporto parola/immagine è frequente e ribadita nel Retablo di Ardara, non solo nei polvaroli dove individua i profeti e i santi, ma anche negli scomparti maggiori dove sottolinea particolari significati e allusioni. Nella scena dell’Annunciazione, le parole Te Deus laudamus te Dominum nel cartiglio retto dagli angeli sono l’inizio del Te Deum, antico inno cristiano recitato nelle feste e solennità dall’ottava di Natale sino a Pasqua; le parole Adoramus te rex iudeorum nello scollo della veste di uno dei Magi sono un velato riferimento alla crocifissione di Gesù; l’iscrizione Surrexit non est hic sul fronte del sepolcro nella scena della Resurrezione corrispondono alle parole rivolte dall’angelo alle Pie donne (Mc 16, 1-7), rappresentate sulla destra dello scomparto.

Per quanto concerne le sacre rappresentazioni, in uso dal Medioevo, le fonti apocrife per la loro abbondanza di dettagli aneddotici si prestavano ad essere tradotti in linguaggio scenico: ancora nel 1502 a Toledo fu messa in scena l’opera in versi dal titolo Auto de los Reyes Magos (XII secolo).

Gli antichi abitanti di Ardara, che vedevano il loro retablo tutti i giorni in un contesto di orazione, immersi nell’ombra dell’antica chiesa non illuminata come oggi da moderne apparecchiature elettriche ma dalla luce fumigante di torce e candele, attraverso le immagini venivano condotti pian piano a rapportarsi al piano simbolico del mistero. Come afferma mirabilmente Sant’Agostino: «quando [l’anima] viene condotta a segni materiali delle realtà spirituali, e da questi poi verso le cose che i segni rappresentano, allora […] si rafforza nell’atto stesso di passare dagli uni alle altre, appunto come la fiamma di una fiaccola che, muovendosi, arde sempre più intensamente».

La Chiesa ha sempre accettato il ruolo sacramentale dell’arte religiosa, la capacità delle immagini sacre di illuminare l’intelligenza, stimolare la devozione, toccare l’affettività. Come afferma Timothy Verdon (2001), «le immagini sacre, in analogia con i riti per cui servono spesso da sfondo, non sono solo portatrici di una rivelazione data nel passato, ma autentiche forme di rivelazione religiosa nel presente, che prolungano il processo di ierofanizzazione implicito nei riti stessi».

La risposta corale dei fedeli veniva poi incanalata nelle forme della pietà popolare, attraverso riti e tradizioni consolidate come le processioni, gli inni liturgici o i canti in onore della Vergine e dei santi, detti in Sardo goccius (dal Catalano goigs o goccius, in Castigliano gozos).

Per concludere queste brevi riflessioni, a noi spettatori moderni sfugge quale fosse la dialettica viva tra la parola predicata e l’immagine dipinta, eppure di fronte al Retablo di Ardara restiamo ammirati dalla sua maestosa imponenza, siamo attratti dalla vividezza dei suoi colori, dal brillìo della foglia d’oro e dalla ricchezza dei suoi intagli, ma soprattutto dalla chiarezza narrativa e dalla capacità evocativa delle storie qui rappresentate, una vera e propria catechesi per immagini dal forte potenziale emotivo.

N.d.R. Ove non specificato, tutte le immagini qui pubblicate sono relative al Retablo Maggiore di Ardara, conservato ad Ardara nella Basilica di Santa Maria del Regno.

 

Per gentile concessione dell’autrice e dell’editore.

 

Alessandra Pasolini

Alessandra Pasolini ha insegnato Storia dell’Arte Moderna e Arte Moderna in Europa all’Università di Cagliari. Autrice di vari articoli in riviste specialistiche, tra le monografie si segnalano: “Argenti di Sardegna. La produzione di argenti lavorati in Sardegna dal Medioevo al primo Ottocento” (Morlacchi 2016) e “Altari barocchi. L’intaglio ligneo in Sardegna dal tardo Rinascimento al Barocco” (Morlacchi 2019), entrambi scritti con Marisa Porcu Gaias.

Tag: Alessandra PasoliniArdaraBasilica di santa Maria del Regnogiudicato di TorresMadonnaMorlacchi editoreQuattrocentoRetablo di ArdarasardegnaSoprintendenza di CagliariUniversità di CagliariXV secolo
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