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Stazzi di Gallura: un mondo a parte, isola nell’Isola

di Redazione
26 Ottobre 2020
in Cultura, In evidenza, Patrimonio Artistico & Naturale, Storia, Territorio
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Pubblichiamo di seguito il secondo di una serie di interventi a cura di Quintino Mossa sugli stazzi galluresi.

di Quintino Mossa – Il modo peculiare con cui  si è descritto (nel precedente articolo pubblicato da “Controcampo” a cura dell’Autore, NdR) il ripopolamento della contrada Gallura è solo uno dei percorsi possibili. Infatti, è facile considerare che non tutto si sia svolto così linearmente. Le storie non hanno un andamento geometrico. Naturalmente si possono indicare altri percorsi che nella realtà fattuale si sono verificati. Si tenga presente che anche questi ultimi, qui indicati, non esauriscono ciò che in realtà è avvenuto. Farlo sarebbe impossibile, ma tentiamo comunque di dare un quadro più vicino possibile al reale, che illustri avvenimenti e scenari per quanto riguarda origine e formazione degli stazzi.

Il Fara nella sua “Corografia” (1565) descrive la Gallura come una contrada praticamente deserta. Rarissime presenze umane di pastori vaganti dietro numerose greggi che appartenevano ai signori della piccola feudalità di Tempio, li Caagliéri. Come si è visto, tutta la popolazione era concentrata in poche grosse borgate sulle colline interne, lontane dal mare infido per i litorali malarici e per le scorrerie dei Barbareschi. “Il male viene dal mare!”

Tuttavia, lo stesso Fara, alcuni anni dopo (“De Rebus Sardois”, 1568), non manca di notare che già alla fine del XVI secolo esistono porzioni di terra sottratte all’uso collettivo per concessioni, strappate ai piccoli feudatari rinchiusi nei lontani villaggi, ottenute a volte attraverso l’istituto dell’enfiteusi e, poi, difese contro le tardive rivendicazioni dei contadini dei borghi, che ritenevano essenziale per la loro sopravvivenza il mantenimento delle vidazzoni (o aree coltivate dalla collettività del villaggio), e difese anche contro il tentativo di ritorno degli stessi feudatari, che riaffermavano i propri diritti. Quegli uomini (culvertos) – che si sentono ormai affrancati dagli antichi vincoli feudali – danno inizio alla costruzione dei primi stazzi e alle prime recinzioni di parte del territorio, di cui, dopo il volgere di alcune generazioni, rivendicano il possesso immemoriale. E i giudici della Reale Udienza, alla quale ricorrono per rivendicare un diritto che ritengono acquisito, danno spesso loro ragione.

Dunque, non solo quegli abitanti dei villaggi che intendono sfuggire alla miseria, ma gli stessi pastori nomadi che praticano la transumanza o che pascolano le greggi dei Cavalieri di Tempio, tendono a svincolarsi dai loro obblighi e fissare una residenza in luoghi impervi dove le interdizioni servili e il fisco rapace non possano raggiungerli.

A loro spesso si aggiunge una migrazione costante dalla Corsica. La contrada è stata, infatti, colonizzata, anche se in piccola parte, anche dai Corsi. I motivi di questa colonizzazione sono i più disparati. Tradizionalmente da Bonifacio numerose famiglie di pastori praticavano la transumanza sulle coste sarde e sulle vicine isole minori. Molti erano dediti al contrabbando, sostenuti, con vantaggi reciproci, dai pastori locali, con i quali condividevano anche affinità linguistiche e culturali. Non pochi sfuggivano, riparando in terra di Gallura, alle vendette usuali tra famiglie, come pure alle crisi sociali e alle torbide, contrastate vicende dell’irredentismo corso. Per tutto il ‘600, tuttavia, il fenomeno della disseminazione degli stazzi non assume forme vistose.

Ogni tanto, tra le confuse, molteplici rivendicazioni bisognava fare il punto e verificare la mappa delle concessioni e delle appropriazioni. Più facile impadronirsi dei saltus, stepposi o boscati, che in parte appartenevano alla comunità di villaggio che vi esercitava un difficile controllo; ma il resto era proprietà dello Stato – o saltu de Rènnu – e costituì, dopo la conquista aragonese prima e spagnola poi, vasti domini feudali, per il cui uso veniva pagato un tributo che, come abbiamo visto, dava luogo a un privilegio detto appunto con parola spagnola ademprivio (o privilegio a disporre di una cosa: ad rem privium).

Tali diritti autorizzavano gli abitanti a farvi pascolare le greggi (cursorie, da cui cussoggja) raccogliere ghiande, tagliare legna. Favorivano comunque la persistenza di piccole unità sociali dedite ad attività precarie e marginali. I privilegi ademprivili erano assolutamente indispensabili per l’esistenza delle popolazioni rurali. Gli spazi vuoti del saltus offrivano ai più poveri anche le bacche dei corbezzoli e dei mirti, l’olio del lentischio, le fibre degli asfodeli e delle palme nane, gli aromi dell’elicriso e dell’alloro, molti frutti di alberi che crescevano spontaneamente; perastri, more, gelsi, funghi, erbe, radici commestibili o usate come medicamenti, cacciagione di piccoli animali; mille risorse che servivano a rendere meno temibili le carestie che ciclicamente si abbattevano come un imprevedibile e temuto fenomeno naturale.

La maggior parte dell’Isola era una specie di territorio pubblico i cui diritti legittimi non furono mai precisati (per esempio, con l’introduzione di un catasto) e dove le distinzioni fra terre comunali, feudali e riserve reali non ebbero mai significato nella coscienza popolare: una indistinzione che suscitava cupidigie e attese. Una sola differenza meramente quantitativa stabiliva distinzioni: variava l’estensione degli spazi coltivati da proteggere, creando una contrapposizione tra i villaggi, contratti nelle terre più fertili, pur spesso in contesa fra loro, e le contrade più aspre, meno accessibili e quasi deserte di presenza umana ordinatrice, ma dove uomini avventurosi o spinti dal bisogno stabilivano la sede del loro lavoro e ne rivendicavano comunque il possesso.

La concentrazione dell’habitat in grossi villaggi interni si pensa sia stata determinata da una grave situazione di precarietà, soprattutto perché garantiva la protezione dei campi coltivati e dei pascoli da parte della comunità di villaggio, in sostanza garantiva le condizioni essenziali della vita, inoltre consentiva la difesa dai pericoli esterni; impediva alle greggi nomadi l’invasione delle colture necessarie alla sopravvivenza o era in grado di reagire agli assalti dei barbareschi, che non sono mai cessati fino all’alba del XIX secolo. Sempre uguali comunque e dovunque erano le regole che governavano la struttura agraria di tutta l’isola. Eccezionale il possesso a titolo individuale di terreni sottratti alla “rotazione forzata” della vidazzòne (seminerio comune) o all’esercizio comunitario degli ademprivi.

Bisogna anche considerare che la Sardegna durante la dominazione spagnola era al centro di una vasta area di scambi nel Mediterraneo occidentale, che consentiva la commercializzazione dei prodotti tipici dell’Isola: sale, legna, cereali, formaggi, carni, pescato, pelli, minerali. Area di scambi venuta meno col passaggio alla dominazione piemontese che, agli inizi, determina una grave crisi. È anche questa una delle ragioni che accentua la dispersione nel territorio di piccoli gruppi alla ricerca di migliori condizioni di vita.

In Sardegna o si era pastori o si era contadini e tra i due erano sempre presenti tali contrasti da generare, attraverso i secoli, una sorda ostilità. Quel monumento giuridico che è “La Carta de Logu” della giudicessa Eleonora d’Arborea (Sa Giuighissa), aveva tentato di porvi rimedio prevedendo punizioni severissime in presenza di prevaricazioni. In Gallura, col moltiplicarsi degli stazzi, si era pastori e contadini allo stesso tempo. Infatti, a partire dalla prima metà del XVIII secolo, i pastori galluresi si sono dedicati all’agricoltura, hanno piantato delle vigne, hanno esteso il loro piccolo orto primitivo, hanno dissodato il terreno e seminato i cereali. Stabilendo accordi con i vicini, si sono riservati tutt’intorno i propri pascoli. Fissatisi così in un pezzo di terra, si sono stanziati con le loro famiglie in case in muratura.

Il particolare di un’importanza assoluta, tale da determinare la specificità della cultura gallurese, sta proprio nel fatto che il pastore, sia che fosse transumante, sia che scegliesse come propria dimora una grotta, un capanno o un nuraghe, o finalmente una dignitosa casa in muratura, sempre aveva con sé la propria famiglia. La propria donna e i propri figli. Solo questo dato dovrebbe essere motivo di approfondimenti e riflessioni.

Padre Gemelli (“Del Rifiorimento dell’Isola di Sardegna”), studioso che sostenne il tentativo settecentesco, riformistico e illuminista dei Savoia di dare spazi e priorità all’agricoltura – con il conseguente contenimento della pastorizia –, oltre a denunciare i danni della pastorizia vagante, più di chiunque altro ha segnalato le conseguenze negative della gestione comunitaria della terra: la troppo breve durata del contratto tra il concedente del terreno e il chi ne usufruiva (meno di un anno); l’assenza di cascine disseminate nella campagna; l’impossibilità di coltivare alberi da frutto e allevare animali da cortile.

In un progetto di Editto si dice: «Il vassallo non coltivando il suo terreno che ogni due o tre anni ad altro non bada che alla raccolta dell’anno in cui semina; donde nasce il non esservi alberi, prati naturali od artifiziali, letaminatura, irrigazioni, insomma nessuna buona pratica di coltivazione…». Nel 1804 il Presidente della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari, coglieva il nocciolo della questione: «… si tratta di conciliare l’agricoltura colla pastorizia, ossia trovare i mezzi coi quali, cessando le insorte gare tra gli agricoltori e i pastori, si possa far fiorire e prosperare questo doppio ramo di ricchezza nazionale».

Il rimedio proposto fu l’imposizione delle “Chiudende”. L’Editto «sopra le chiudende», che doveva modificare profondamente il paesaggio di buona parte della Sardegna, è del 1820 e si può riassumere in due articoli:

1) «Ogni proprietario ha facoltà di chiudere tutti i suoi terreni non soggetti a servitù di pascolo, di passaggio o di abbeveratoio, e anche i terreni soggetti al pascolo vagante, se ne ottiene il permesso del prefetto della provincia, dietro parere delle comunità interessate.

2) Uguale facoltà è accordata ai comuni per tutte le terre di loro proprietà. Possono dividerle in parti uguali tra tutti i capifamiglia, o venderle o darle in affitto».

L’applicazione, evidentemente facoltativa delle norme, era affidata all’arbitrio dei singoli. Se si eccettua la Gallura, nel resto della Sardegna solo i ricchi poterono intraprendere la costruzione di lunghi e costosi muri a secco. Solo i grandi proprietari, forti della loro superiorità sociale, ottenevano facilmente i permessi necessari, e potevano ritagliarsi gli appezzamenti secondo il proprio gusto, grazie anche all’incertezza dei confini di proprietà. Ricchi proprietari circondarono di muri i pascoli migliori dei villaggi, incorporandovi boschi di querce e fontane poi, per trarne il profitto più facile, li diedero in affitto a quei pastori che fino a poco prima li percorrevano liberamente (cursorie) e coloro che non disponevano di risorse si trovarono ad essere obbligati a inviare le loro greggi sugli scarsi pascoli comuni restanti.

Così l’Editto del 1820 – favorendo solo i ricchi e i potenti che avevano non l’intenzione di migliorare il sistema agricolo, ma il proposito di far pagare caro a pastori e contadini la facoltà di seminare o il diritto di far pascolare le greggi – provocò un grandissimo numero di abusi di fronte ai quali le comunità rurali della Sardegna si opposero tenacemente. Alcuni pubblicisti assunsero le difese del vecchio sistema (su connóttu). Uno di loro, nel 1848, scriveva che la legge non aveva portato alcun beneficio ai piccoli proprietari: le vidazzòni erano state divise tra un grandissimo numero di coltivatori che così erano divenuti proprietari di una miriade di microscopici appezzamenti, assolutamente impossibili da chiudere. Le comunità non ne avevano tratto alcun beneficio e i proprietari non erano stati capaci di coltivare le loro terre. Malgrado le precisazioni del 1831 e 1839, non molte terre furono chiuse prima del 1850. Solo tra il 1860 e il 1870 prende forma il quadro agrario che abbiamo oggi sotto i nostri occhi.

Ma la Gallura, il cui popolamento ad habitat disperso (stazzi) è avvenuto su base individuale, e dove il possesso delle terre era di fatto ampiamente riconosciuto, non è stata modificata dall’“Editto delle Chiudende”. Le ordinanze che ne precisarono le disposizioni, diedero un’ulteriore sanzione ufficiale ai risultati dell’avvenuta colonizzazione, liberandola da ogni ombra di illegalità. Il regolamento del 1839 dispone: «Le orzaline, o altri terreni simili, consistenti in terreni coltivati in prossimità degli stazzi, saranno considerati di proprietà privata, nella misura in cui saranno regolarmente coltivati».

Restava da legalizzare l’esercizio dell’allevamento nei pascoli che circondavano questi campi coltivati. Lo stesso regolamento del 1839 troncò di netto le dispute tra gli abitanti delle fattorie disseminate e gli abitanti dei villaggi, che tendevano a esercitare nei pascoli comuni i loro diritti di ademprivio (perché si potessero raccogliere ghiande, tagliare legna, cogliere bacche, dissodare terre), decidendo che una parte adeguata dei pascoli (cursorie) sarebbe stata sottratta agli usi collettivi e legalmente concessa agli abitanti degli stazzi. A poco a poco, le opposizioni cessarono e così l’habitat disperso della Gallura periferica fu rafforzato. La legislazione del XIX secolo sulle chiusure, a causa degli esiti diversi che s’imposero da luogo a luogo, ebbe il risultato di sottolineare e precisare certi contrasti di geografia naturale.

Due fattori, connessi fra loro, hanno trasformato gli insediamenti di coloni dei due secoli precedenti. Da una parte la diminuzione delle zone sottoposte a colonizzazione; dall’altra, un’espansione dei campi coltivati. All’origine lo stazzo controllava una zona molto vasta e indefinita. Successivamente, l’arrivo di nuovi pionieri e le sentenze d’arbitrato dell’amministrazione statale, provocarono la fissazione di confini riconosciuti e una contrazione delle terre rivendicate dai coloni più antichi. Ma una vera e propria divisione in parti più piccole si è verificata solo dopo il 1850, a seguito di una serie di divisioni ereditarie, per arrivare dopo tre o quattro spartizioni, alle dimensioni reali dello stazzo di oggi. In secondo luogo, i territori pastorali delle origini sono diventati oggi fattorie contadine. Mentre agli inizi il dissodamento di qualche pezzo di terra, a garanzia della fissazione del colono in quei luoghi, rappresentava solo una piccola parte dell’attività dello stazzo.

Un cambiamento sopraggiunse verso il 1825-1850. Scrive il La Marmora (Viaggio in Sardegna) nel 1839: «In Gallura… dove gli abitanti erano sino a pochissimo tempo fa pastori esclusivamente, si osserva… un aumento sorprendente delle superfici coltivate a cereali intorno agli stazzi… superando di parecchio il fabbisogno dei consumi di chi vi abita, così i proprietari annettono ai prodotti dei loro appezzamenti la stessa importanza dei prodotti dell’allevamento». La tendenza al predominio della coltivazione non s’allentò più, anzi fu accentuata dalla frenesia dei tagliaboschi che ritagliarono estese radure, sacrificando il reddito lento delle sugherete ai guadagni ben più importanti e rapidi forniti dal legname. Cosicché ben presto i coltivatori degli stazzi di Gallura conobbero, grazie alla varietà e all’equilibrio delle risorse prodotte, un benessere insolito in Sardegna. Solo che il grano tenero coltivato mal si adattava alle abitudini diffuse in tutta l’Isola di panificare una volta alla settimana, perciò – pur essendo sufficiente al fabbisogno anche dei centri abitati – doveva essere scambiato col grano duro della vicina Anglona.

Altra caratteristica gallurese era l’allevamento quasi esclusivo di buoi e capre: la pecora era praticamente assente. I bovini pascolavano nei terreni migliori vicini allo stazzo, quelli che ogni cinque o dieci anni venivano arati e seminati a grano, orzo, avena, talvolta, secondo la qualità dei terreni, ogni quindici o vent’anni; le capre andavano nelle zone cespugliate e sassose dei saltus (incolto improduttivo). Perciò lo stazzo più che un’azienda agricola e pastorale, non disponendo né di leguminose né di foraggere, era un villaggio sardo in miniatura. Gli animali vivevano allo stato brado tutto l’anno, determinando una separazione completa tra coltivazione e allevamento. Certi proprietari si dedicavano esclusivamente al lavoro dei campi e affidavano il bestiame a pastori che assumevano con un contratto a mezzadria (a sangu e latti).

Tuttavia gli stazzi della Gallura producevano una gamma variegata di beni. Formaggi di latte mescolato e carni e pelli venivano al primo posto. Ogni stazzo aveva il suo orto e la sua vigna, uno o più maiali da ingrasso e animali da cortile. I fittavoli procuravano qualche carro di legna ed estraevano il sughero, oltre alla coltivazione estensiva a cereali dei terreni. Nei periodi di crisi, la Gallura con le sue risorse differenziate – nonostante la povertà dei suoli e la difficoltà delle comunicazioni – era una delle regioni meno indigenti dell’Isola. La casa rurale traduceva questo relativo benessere.

Tutto va riferito ad un sistema che ha una sua logica e una sua dignità. I pastori e i contadini della Gallura, per lunga parte dell’Ottocento e del secolo scorso, sembravano diventati padroni del loro destino. Avevano famiglie numerose e prospere. Sapevano reagire con energia e determinazione alle imposizioni e prepotenze dei funzionari, feudali prima e statali poi. Certo, non si è mai verificato il passaggio da un’agricoltura autarchica esercitata per la sussistenza a forme economiche più complesse, ma le capacità agricole dimostrate li hanno posti in una dimensione più libera di fronte ai condizionamenti ecologici.

Oggi consideriamo “primitivo” il modo di produzione degli stazzi: la superficie a riposo superava di gran lunga quella coltivata e tale sistema era possibile solo perché pochi uomini avevano a disposizione una grande quantità di terreno. Vi erano pure dei vantaggi: la rigenerazione del suolo era lasciata completamente nelle mani della natura e in tal modo non veniva impoverito l’ambiente coltivato. Essendo però un metodo quasi di monocoltura, vi era il grave rischio che una malattia, la siccità o il suo contrario, piante infestanti o insetti, procurassero danni irreparabili.

Per mantenere intatta la proprietà si ricorreva a un’accorta politica di matrimoni, spesso, dove non era possibile diversamente, tra consanguinei. Nella società gallurese si dava luogo, compensativamente, anche a politiche espansive attraverso acquisti, scambi, talvolta appropriazioni forzate. Quando tutto questo non è stato più sufficiente si è differenziata l’eredità, offrendo ai figli con maggior vivacità intellettuale la possibilità di conseguire un titolo di studio utile per essere inserito nella pubblica amministrazione e lasciando agli altri la proprietà. La comparsa di un lavoro prestigioso, esterno al mondo degli stazzi, con un nuovo spirito di autonomia, è un ulteriore fattore di pericolo per la sopravvivenza del modello di riferimento. Si aggiunga, nell’ultimo trentennio, la comparsa del trattore (come di altre novità tecniche), che offre ad un uomo la capacità di lavorare maggiori estensioni in un solo giorno, per comprendere come non sia più necessario mantenere la famiglia, divisa sulle diverse attività, nello stazzo. Cui si aggiunga, come elemento dispersivo, la spinta migratoria alla ricerca di migliori condizioni di vita.

Silla Lissia, nella sua opera del 1903 sulla Gallura, parlava di circa tremila stazzi disseminati nel vasto territorio, i cui abitanti superavano di gran lunga per numero quelli dei centri abitati montani, li ‘iddhi di supra. Un undicesimo della Sardegna è la più importante delle zone ad habitat disperso. Le bianche casette punteggiavano le contrade costiere e si spingevano dalle marine fino alle zone più remote della Gallura interna. La nota saliente del paesaggio è data dalle bianche case isolate che interrompono con il loro pastricciale il tappetto verde scuro della macchia e delle sugherete. Sul davanti, un orto e una vigna recintati e curati, più lontano, tra le lande a macchia mediterranea e il caos dei blocchi granitici, le colture cerealicole e il maggese a pascolo. Ancor più lontani, elementi supplementari, di nuovo landa e bosco. (Segue)

Quintino Mossa, laureato in Pedagogia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha insegnato per decenni in tutti gli ordini e gradi della scuola pubblica. Per incarico del Ministero per gli Affari Esteri è stato dirigente scolastico con compiti di promozione per la conoscenza e la diffusione della Lingua Italiana nella Patagonia argentina andina. Da tempo si interessa di raccontare il complesso delle tradizioni della Gallura, per conservare e valorizzare quelle a rischio di oblio.

Tag: AnglonachiudendeCorsicagalluraQuintino Mossasardegnastazzi
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