Pubblichiamo qui l’Introduzione al volume “Altari barocchi. L’intaglio ligneo in Sardegna dal tardo Rinascimento al Barocco” (Morlacchi Editore, 2019) a cura di Alessandra Pasolini e Marisa Porcu Gaias – C’è un ambito finora poco indagato nella produzione artistica sarda ed è quello degli altari lignei tardo rinascimentali e barocchi, tuttora ornamento di molte chiese. Eppure è importante il ruolo da essi svolto all’interno degli edifici sacri, a partire dal polittico soprastante l’altare (retaule in catalano, retablo in spagnolo), spesso di notevoli dimensioni, le cui trasformazioni strutturali e stilistiche consentono di seguire le vicende artistiche isolane nel corso dei secoli.
In questi manufatti, articolati in più ordini e scomparti, sulla base dei desideri dei committenti e proporzionati agli spazi sacri entro cui andavano collocati, emergono con evidenza l’interrelazione e l’intenso dialogo tra le diverse arti: dall’impostazione architettonica agli scomparti pittorici o con statue lignee dorate o policromate.
Macchine architettoniche complesse, gli altari lignei in Sardegna erano normalmente frutto della collaborazione di maestranze diverse: la struttura era affidata a carpentieri e falegnami specializzati, le cornici e la decorazione architettonica agli intagliatori, quella in foglia d’oro ai doratori, l’apparato plastico agli scultori, la finitura cromatica e le tele da inserire negli scomparti ai pittori.
La foggia architettonica, la disposizione delle scene e l’iconografia dei santi erano stabilite nei patti contrattuali, stipulati tra committente ed artista-imprenditore, che poteva coinvolgere nell’impresa altri soci o subappaltare specifici compiti a collaboratori esterni alla bottega. Era consuetudine che nell’atto legale si facesse riferimento a modelli precedenti, di consolidata tradizione e diffuso apprezzamento, ma era anche frequente vincolare la resa finale del lavoro a schizzi (dibujos) o disegni progettuali (traças), allegati al contratto.
Più o meno popolareschi nei loro intagli, questi retabli o altari lignei, in massima parte dorati, risentono degli schemi architettonici e ornamentali illustrati dai manuali di architettura rinascimentali, di Sebastiano Serlio (1537-1575) e del Vignola (1562) in particolare, perduranti in tutto il Seicento.
A giudicare dagli inventari redatti dai vescovi sardi in occasione delle visite pastorali tra 1539 e 1630, il numero dei retabli presenti nelle chiese della Sardegna era cospicuo. Le informazioni che si ricavano da questa documentazione offrono il quadro generale: l’altare maggiore di ogni chiesa parrocchiale era ornato da un retablo dedicato alla Vergine o al santo titolare, normalmente dotato di un paliotto d’altare e di almeno due candelieri o angeli porta-cero intagliati.
La diffusione, dal Quattrocento in avanti, della confraternita della Santa Croce, determinò la creazione delle cappelle dedicate all’interno delle chiese parrocchiali e quindi dei relativi oratori, con un’ampia rappresentanza in tutto il territorio regionale, in particolare nel Settentrione dell’Isola.
Nell’arco del Seicento furono spesso collocati in essi dei retabli, anche con inserti pittorici, mentre nel Settecento si osserva il prevalere dell’elemento architettonico entro il quale trova posto il Crocifisso.
Altrettanto avvenne, dalla seconda metà del Cinquecento, per la devozione alla Madonna del Rosario, incrementata dopo la battaglia di Lepanto (1571), e per quella altrettanto ampia alla Madonna d’Itria, protettrice dei viandanti, che diede luogo alla costituzione delle rispettive confraternite e all’edificazione di oratori o cappelle dedicate nelle chiese domenicane e agostiniane, dove era presente un simulacro della Vergine, spesso col relativo altare.
In modo analogo, i diversi ordini religiosi incrementarono la devozione per i loro santi dedicando ad essi altari e cappelle con i rispettivi simulacri. Ciò spiega, almeno in parte, la grande diffusione del culto e della rappresentazione figurativa e scultorea, ad esempio, di Sant’Antonio Abate e Sant’Antonio da Padova e dei santi fondatori dei vari ordini. Oltre ai culti universali, in Sardegna erano oggetto di particolare devozione, alimentata anche dai vari campanilismi, i santi patroni delle singole comunità, anche vaste, come i Martiri turritani nel Capo di Sopra e i santi Saturnino ed Efisio nel Capo di Sotto. Delle varie categorie produttive e artigianali, veneravano San Giovanni Battista, Sant’Isidoro e San Narciso gli agricoltori, Sant’Eligio gli orefici e i fabbri, San Giuseppe i falegnami e così via. Una particolare devozione, dovuta al ripetersi di calamità ed epidemie, era riservata ai santi taumaturghi e medici come Cosma e Damiano, Antioco, Lucia e ai santi protettori dalla peste come Rocco e, soprattutto, Sebastiano. In un territorio ad economia agro-pastorale non potevano mancare i santi invocati per dirimere contese sui confini dei terreni come San Giorgio di Suelli, o liti familiari come San Mauro abate. In alcuni casi a prevalere sono le devozioni personali o familiari del facoltoso committente, eponimo del santo, o l’influsso culturale e religioso dettato dal governo del tempo.
Emerge da evidenze documentali che i retabli erano diffusi non solo all’interno delle chiese ma anche nelle cappelle dei palazzi signorili di città e negli oratori delle residenze feudali delle ville. Per esempio, a Cagliari, il 18 giugno 1618 i Carmelitani, presieduti da fra Angelo Pitzolo, ricevettero dal mercante genovese Ambrogio Morisana il retablo di San Bernardo con quatto angeli, quattro candelabri di legno argentato e alcuni vasi con fiori, donati dal maiorchino Bernardo Flusca. Nel suo testamento, rogato dal notaio Antioco Nuado, chiese di porre gli arredi in prossimità del suo sepolcro, situato a mano sinistra entrando nella chiesa del Carmine a Cagliari, ricavando una nicchia dove inserire il retablo. Con un secondo documento, si cedeva ai Minori Conventuali un secondo retablo, dedicato a Sant’Efisio martire, sempre per conto di Bernardo Flusca.
Nel XVIII secolo, a Sassari, il 10 novembre 1776, fu stipulato il contratto (convenio) fra il duca dell’Asinara e lo scultore Antonio Adoni per la fattura di un retablo per la cappella della casa baronale di Mores, che doveva essere uguale a quello che stava nella chiesa di Santa Maria di Pisa, al tempo nell’agro di Sassari, di proprietà del conte di Ittiri.

Dagli studi d’insieme sul patrimonio artistico isolano, emerge come i grandi altari intagliati abbiano concorso con i decori in pietra a determinare il carattere eclettico dell’architettura sarda del Seicento e di buona parte del Settecento. Nelle decorazioni di architravi e stipiti di porte e finestre gli scalpellini rielaborarono elementi d’ornato della tradizione locale con un senso popolaresco. Di fatto, i lapicidi funsero da progettisti, imprenditori e costruttori nelle fabbriche, arrivando talvolta a ricoprire ruoli di prestigio come capomastri delle opere reali.
Dopo il passaggio della Sardegna dal dominio spagnolo al governo sabaudo, l’atteggiamento degli ingegneri militari di fronte agli altari lignei barocchi, ancora così tenacemente ispanici, fu assai severo. È interessante, al riguardo, la condanna espressa dall’ingegnere piemontese Francesco Daristo (doc. 1772-1777) che in una sua relazione del 1776 considerava «di orrido gusto e indegno di una cattedrale» l’altare di San Giuseppe del duomo di Oristano, intagliato e dorato localmente da Giovanni Sanna nel 1759 e corredato di belle statue d’importazione napoletana, opera dello scultore Lorenzo Cerasuolo (1760). Si tratta di un giudizio, ampiamente diffuso all’epoca e protrattosi fino al primo Novecento, che segnava il progressivo declino delle botteghe degli intagliatori di altari lignei, via via sostituiti, soprattutto nel Meridione dell’Isola, dai più costosi altari e arredi marmorei di gusto rococò, opera di marmorari liguri e lombardi.
Non sono quindi molti i centri sardi che conservano ancora in situ i loro polittici, che fungevano da fondale architettonico e scenografico dei presbiteri e delle cappelle di chiese e oratori. Essi costituivano il fulcro visivo dello spazio liturgico, quasi una macchina scenica: attraverso ricorsi persuasivi ed emozionali, con il ricordo dei patimenti di Cristo e l’affettuoso richiamo alla dolcezza dei sentimenti, si intendeva coinvolgere il popolo dei fedeli, riunito nelle chiese per partecipare alla liturgia eucaristica e agli altri riti, o per seguire la predicazione di sacerdoti, religiosi e missionari. Dobbiamo dunque immaginare una sorta di sintesi tra la predicazione, la contemplazione delle immagini dipinte, che narravano la vita dei santi, e la rappresentazione teatrale nell’intento di divulgare il messaggio del vangelo, di smuovere gli affetti e di persuadere l’uditorio.
Immersi nell’ombra delle chiese, non illuminate come oggi da moderne apparecchiature elettriche, ma alla luce fumigante di torce e candele, gli altari lignei barocchi erano nella maggior parte dei casi rivestiti di una luccicante foglia d’oro, materiale simbolico certamente allusivo alla presenza divina ma anche funzionale alla carenza di luminosità degli spazi sacri. La risposta corale dei fedeli era incanalata nelle forme della pietà popolare attraverso riti e processioni, gli inni liturgici o i canti tradizionali in onore della Vergine e dei santi.
Anche se ad occhi moderni sfugge quale fosse il profondo legame tra l’immagine dipinta e la parola predicata, di fronte a tali “macchine” architettoniche siamo attratti dalla fastosità delle forme, dalla ricchezza degli intagli, dal brillìo della foglia d’oro e dal colloquio tra le storie qui rappresentate in pittura e in scultura, una vera e propria narrazione sacra dal forte impatto religioso.
L’arte dell’intaglio non riguardava solo gli altari lignei ma la gran parte degli arredi liturgici, secondo le prescrizioni postconciliari che ne prevedevano il rinnovamento nei secoli XVII e XVIII, oggetto di questo studio. Sono i tabernacoli, i pulpiti e le cantorie, le edicole dei fonti battesimali, i cori lignei, i mobili di sacrestia dove riporre i paramenti sacri, i confessionali ad essere interessati da questo processo di adattamento alla nuova liturgia. Come per gli altari, anche in essi è possibile osservare il mutamento delle forme e degli influssi stilistici nell’arco dei due secoli in esame e individuare in diversi casi anche gli artefici e le loro diverse provenienze.
Con questo studio si vuole quindi fornire una visione complessiva della produzione di questo peculiare artigianato artistico tra Seicento e Settecento, basata sulle testimonianze materiali sopravvissute nelle chiese sarde e col supporto degli atti documentali.
Per gentile concessione dell’Editore e delle autrici.
Alessandra Pasolini ha insegnato Storia dell’Arte Moderna e Arte Moderna in Europa all’Università di Cagliari. Autrice di vari articoli in riviste specialistiche, tra le monografie si segnalano: “Argenti di Sardegna. La produzione di argenti lavorati in Sardegna dal Medioevo al primo Ottocento” (Morlacchi 2016) e “Altari barocchi. L’intaglio ligneo in Sardegna dal tardo Rinascimento al Barocco” (Morlacchi 2019), entrambi scritti con Marisa Porcu Gaias.
Marisa Porcu Gaias è ricercatrice autonoma di Storia dell’Arte e dell’Architettura in Sardegna, autrice di numerosi saggi e monografie fra cui “I retabli maggiore e minore di Saccargia” (in “I 900 anni della basilica della SS. Trinità di Saccargia”, 2014) e “Corpi Santi. Culto e iconografia dei martiri turritani dal Medioevo all’Ottocento” (Mediando, 2018). Con Alessandra Pasolini ha pubblicato le monografie “Argenti di Sardegna” (Morlacchi, 2016) e “Altari barocchi” (Morlacchi, 2019).