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Il territorio di Olbia nell’Età del Ferro (900–700 a. C.). Verso la crisi e il tramonto della Civiltà Nuragica

di Redazione
14 Dicembre 2020
in Cultura, In evidenza, Senza categoria, Territorio
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Pubblichiamo di seguito la quarta puntata del viaggio nella storia del territorio di Olbia a cura di Rubens D’Oriano – Il passaggio all’Età del Ferro per la totalità della Civiltà Nuragica in tutta la Sardegna è un tornante epocale: via via col tempo molti insediamenti sono abbandonati e non ne nascono di nuovi; il nuraghe non viene più utilizzato e diventa – in pochi casi – un luogo solamente sacro; non viene elaborata nessuna nuova tipologia architettonica; il centro di gestione del potere si sposta sempre più dalla sfera che potremmo definire “laica” a quella religiosa (ovvero dal nuraghe e villaggio ai santuari); emerge in modo più spiccato un ceto dirigente aristocratico; l’ideologia funeraria è completamente sovvertita, passando dai grandi sepolcri monumentali collettivi di superficie (le tombe di giganti) a piccole tombe interrate solo per uno o due defunti (tombe a cista), che sono per di più in numero enormemente inferiore rispetto al passato.

Siamo, dunque, di fronte ad un processo di profonda trasformazione che risponde con molta probabilità a un’acuta crisi, anche demografica, alla quale forse non è estraneo un forte depauperamento delle primarie risorse agropastorali del territorio, esauste dopo il plurisecolare sfruttamento intensivo dovuto all’erezione di migliaia d’imponenti monumenti e alla necessità di sostentare una popolazione prima molto più numerosa. La concentrazione di offerte anche di grande spicco nei santuari non appare sufficiente per ribaltare questi dati complessivi e sottolinea, come detto, lo spostarsi del potere verso il versante religioso, fenomeno che non raramente – in tutti i tempi e a tutte la latitudini – è spia di fasi d’incertezza e crisi quando, di fronte a grandi difficoltà, alle comunità sembra che non resti che sperare nell’irrazionale, una dinamica che possiamo constatare ancora oggi.

Anche nel territorio olbiese la documentazione archeologica sembra decrescere in questa fase, con insediamenti abbandonati (nuraghe e villaggio Belveghile) o che offrono minori testimonianze rispetto al passato (nuraghe Cabu Abbas, pozzi sacri Milis e Sa Testa), anche se va detto che non sono molti i siti nuragici indagati del territorio, perché nella storia della ricerca archeologica la città antica ha fatto la parte del leone dapprima, fino agli anni ‘50, per il preponderante peso che essa rivestiva negli interessi degli archeologi del tempo – da Tamponi a Doro Levi a Panedda – e in seguito, dagli anni ‘70, per le necessità di tutela imposte dal tumultuoso sviluppo della città moderna che le si sovrappone.

E tuttavia due fenomeni ci offrono, sia pure indirettamente ma con grande chiarezza, l’evidenza dell’esistenza di una popolazione magari meno numerosa rispetto al passato ma ancora molto attiva e funzionalmente strutturata al proprio interno: l’insediamento villanoviano di Tavolara e la nascita del centro urbano fenicio.

La penisola Spalmatore di Terra a Tavolara, che ospitò un insediamento villanoviano (850 a. C.).

Intorno all’850 a. C. per la prima volta un gruppo di persone non originarie dell’Isola vi vengono ospitate, costituendo un loro autonomo insediamento, nella penisola di Spalmatore di terra sull’isola di Tavolara. Si tratta di quelli che, in gergo archeologico, sono detti Villanoviani – che evolveranno in seguito nella civiltà che chiamiamo etrusca – i quali popolavano alcune aree della penisola italiana dall’Emilia alla Campania, con particolare concentrazione e fortuna negli attuali territori della Toscana e del Lazio settentrionale e costiero; costoro intrattenevano già da prima relazioni commerciali con la Sardegna nuragica, relazioni che saranno in seguito via via sempre più intense. Lo scavo che ha rivelato l’esistenza dell’insediamento è stato molto parziale rispetto alla sua probabile estensione, e quindi molte sono le cose che ancora non sappiamo. Al momento pare trattarsi di un episodio isolato nel tempo e nello spazio, ma un fatto è certo: esso non avrebbe potuto verificarsi se non grazie a precisi accordi con le popolazioni nuragiche in quanto pienamente “padrone di casa” che concedono l’ospitalità nel reciproco interesse delle due parti. Con tutta evidenza, l’insediamento è funzionale a scambi commerciali, pur se ignoriamo ad oggi la natura dei beni scambiati tra Nuragici e Villanoviani, e ciò comporta obbligatoriamente l’esistenza nel territorio di popolazioni non solo attive e vivaci su questo piano – perché nessuno si stabilisce per commerciare in terre desolate – ma anche che agiscono e decidono in accordo tra di loro, grazie o a forme federative tra comunità di pari grado o alla preponderanza gerarchica di una sulle altre, perché altrimenti l’insediamento di un diverso gruppo umano, se favorito solo da una parte delle comunità locali, avrebbe scatenato la reazione negativa delle altre. I lettori di buona memoria ricorderanno che già per l’Età del Bronzo è stata prospettata, nella precedente puntata della nostra storia, l’esistenza di una qualche forma federativa delle genti del territorio olbiese a proposito dei pozzi sacri Sa Testa e Milis.

Inoltre, che la nascita dell’insediamento si debba a una concessione di chi controlla il territorio è del tutto evidente dalla sua posizione topografica: l’isola di Tavolara, così suggestiva per noi, è un posto del tutto inospitale per chi nell’antichità vi si volesse stanziare, perché non offre risorse tali da garantire il sostentamento autonomo a lungo termine di un gruppo non irrisorio di persone. E’ perciò chiaro che le comunità locali hanno sì concesso ospitalità territoriale ad un gruppo di Villanoviani per reciproco interesse commerciale, ma confinandoli in un spazio nel quale essi dipendono per la sopravvivenza da chi tale ospitalità ha concesso. L’insediamento villanoviano di Tavolara mostra quindi, per ciò che riguarda la storia del territorio olbiese, l’esistenza di comunità vivaci commercialmente, coese tra di loro e così aperte sul piano dei rapporti con altri popoli da accogliere nello spazio di loro competenza uno stanziamento di diversa origine, un’apertura mentale quindi ben maggiore rispetto a quella dei soliti dilettanti che oggi contestano la scoperta come un’invenzione degli archeologi, per un miope senso di “lesa maestà territoriale nuragica” che neppure i Nuragici stessi nutrivano (ben più saggiamente) già 2900 anni fa.

Pendaglio nuragico di bronzo dalla loc. Usula: su una faccia un pugnale, sull’altra tre “spilloni” (stiletti?); età del Ferro (Museo Archeologico di Olbia).

Anche la nascita della città antica con i Fenici attorno al 770 a. C. (che sarà oggetto della prossima tappa della nostra storia, N.d. A.), presuppone necessariamente una controparte indigena nel territorio, del tutto analoga a come or ora descritta, quindi attiva, vitale, organizzata e ospitale, per le identiche dinamiche e motivazioni sopra delineate. Inoltre, nel caso del centro abitato fenicio – la cui durata è di ben 140 anni e quindi certo non episodica, come invece pare quella dell’insediamento villanoviano di Tavolara – un ulteriore importante motivo di ottimi rapporti con le popolazioni locali è evidente: la necessità di unioni coniugali miste. Come meglio vedremo trattando di Olbia fenicia, ad intense pacifiche relazioni con gli indigeni era affidata non solo l’attività commerciale degli stanziamenti greci e fenici nel Mediterraneo Occidentale ma anche la loro prosperità demografica. Le città della madrepatria che promuovevano questi lontani insediamenti (Corinto, Megara, Sparta eccetera in Grecia, Biblo, Sidone, Tiro eccetera nella Fenicia) non erano metropoli di milioni di abitanti: da esse si muovevano via via poche centinaia di giovani maschi e quindi per la continuità del gruppo erano necessarie unioni con donne del posto, un fenomeno ben noto sia dalle fonti letterarie che dai dati archeologici.

Dopo il 700 a. C. le popolazioni indigene della Sardegna pian piano escono dalla scena del commercio marittimo mediterraneo, non certo per ostilità dei loro diversi partner commerciali che, come detto, non avevano alcun interesse che ciò accadesse (anzi, è vero il contrario), ma per l’esaurirsi delle loro dinamiche interne, fenomeno al quale si deve anche la mancata evoluzione in senso urbano, ovvero verso quel tipo di aggregazione che si stava rivelando proprio in quel torno di tempo una delle carte vincenti dei popoli che saranno da allora in poi i principali attori sulla scena del Mediterraneo Occidentale: Fenici, Greci, Etruschi e poi Cartaginesi e Romani.

Gli indigeni di Sardegna non svaniscono nel nulla, ovviamente, e restano per molto tempo un importante imprescindibile elemento della vicenda storica nel territorio olbiese come nell’intera Isola, (come man mano vedremo), ma non saranno più i responsabili primari di essa in termini d’iniziativa commerciale, economica, politica, strategica, militare eccetera.

Un ultimo cenno merita l’etnonimo “indigeni”, già utilizzato in queste pagine per indicare le comunità di origine locale. Fermo restando che ogni nome di popolo, antico o contemporaneo che sia, è puramente convenzionale, perché in realtà la cosiddetta identità culturale di un popolo è un illusorio artificio né più e né meno di quella genetica (su ciò torneremo a consuntivo dell’intera storia che qui narriamo N.d.A.), continuare ad usare il termine Nuragici da questo momento in poi sarebbe anacronistico e forviante, così come lo sarebbe usare quello di Sardi, che indica gli attuali abitanti dell’Isola. Così come non desta scandalo che, nella nostra convenzione terminologica, per esempio i “Micenei” diventino “Greci” o che nessuno si sogni di chiamare “Toscani” i lontani discendenti degli Etruschi in età romana, non si vede per quale motivo dovrebbe destarlo denominare indigeni i lontani discendenti dei costruttori dei nuraghi. Il termine “indigeni” per indicare le popolazioni di origine locale dell’intero Mediterraneo Occidentale – ove non si conosca un nome unitario antico o sia fuorviante usarne uno antico o moderno – risale ad una consolidata, vasta e autorevolissima tradizione di studi sul Mediterraneo antico che non si vede per quale motivo dovrebbe trovare un’eccezione nel caso della Sardegna.

 

Rubens D’Oriano, archeologo specialista soprattutto di archeologia classica e profondo conoscitore di Olbia e del suo territorio, sino a qualche tempo fa ha avuto la responsabilità della Sovrintendenza all’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio; negli ultimi 40 anni, D’Oriano ha seguito e studiato scavi e prodotto numerosissimi studi e pubblicazioni, guadagnando notorietà a livello nazionale ed internazionale.

Tag: archeologiaciviltà nuragicaciviltà villanovianaetà del ferroolbiaporto rotondoRubens D'OrianosardegnastoriaTavolara
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