Pubblichiamo di seguito la terza parte della narrazione dedicata agli stazzi di Gallura a cura di Quintino Mossa – A voler riprendere il filo del discorso indichiamo, di nuovo, in breve sintesi chi sono stati i colonizzatori e gli abitatori degli stazzi della contrada Gallura a partire dal XVI secolo:
- Uomini avventurosi che lasciano i villaggi montani e con le famiglie si stabiliscono nei Salti, lontano dai controlli, alla ricerca di migliori condizioni di vita; allevano bovini, coltivano frumento ricavandone un certo frutto e difendono personalmente il loro possesso e il loro prodotto. Fondamentalmente, dunque, sono galluresi di li ‘iddhi di supra (vedi prima parte, N.d.A.).
- Pastori che praticano la transumanza “breve” dalle colline del Limbara alle marine, decidono di stanziarsi in un luogo già noto – per averlo più volte visitato –, libero da presenze e scelto secondo le esigenze loro, delle loro famiglie e delle greggi. In qualche caso, hanno il permesso di stabilirvisi usufruendo di una concessione in enfiteusi da parte di li caagliéri (cavalieri, piccola nobiltà feudale) di Tempio.
- Pastori corsi (provenienti soprattutto da Bonifacio e dall’Alto Taravo), che portano le loro greggi a svernare tra le isole minori delle Bocche di Bonifacio e le coste della Sardegna. In diversi casi vi si insediano permanentemente, o con le loro famiglie o costituendo nuovi nuclei familiari.
- Fuggiaschi, banditi, avventurieri, contrabbandieri di varia origine, ma che trovano facile asilo e un ambiente adatto a esercitare le loro attività delinquenziali o a sfuggire comunque a chi li persegua o perseguiti.
- Dal XVIII secolo – ma soprattutto dal XIX – carbonai e operai toscani detti, nonostante ciò, dagli abitanti locali li cossi (i corsi), solo perché arrivano passando dalla Corsica. Tagliano boschi per ottenerne carbone e legnami, in gran parte per le traversine delle ferrovie che si vanno costruendo in Europa; spesso sposano donne del posto e lì mettono su famiglia.
Abbiamo anche visto che il movente, l’impulso che ha determinato queste migrazioni atipiche di rarefatti nuclei familiari nello spazio circoscritto alla contrada Gallura: esso è individuabile nella ricerca di condizioni di vita migliori, spesso della mera sopravvivenza. Così come da sempre accade nell’universo mondo. A voler descrivere le condizioni e le cause che hanno consentito l’affermarsi di quell’habitat disperso, noto come “cultura degli stazzi” – della quale tanto andiamo orgogliosi perché marca la differenza specifica rispetto alle altre forme culturali, sia pastorali sia contadine, caratterizzanti gli insediamenti umani in Sardegna – dovremmo ammettere che si è trattato di una contrazione o di una cesura di un modello economico, risalente nientemeno che all’epoca giudicale e che sembrava immodificabile.
La Sardegna, in perenne crisi demografica, già nel XVII secolo è regione marginale del grande impero spagnolo. La stessa Spagna è affetta da una profonda crisi economica e sociale alla quale non troverà sbocco e, soprattutto, non troverà risposte, se non col ricorso a una stretta fiscale mortificante sulle complesse e anguste strutture produttive che già stentavano ad evitare il tracollo. Il passaggio ai Savoia, come visto, peggiorerà la situazione perché verrà meno quell’economia di scambio vigente nel sistema spagnolo che, fino ad allora, aveva permesso di continuare in qualche modo la vita, pur con tutti i problemi ad esso connessi. Le occasioni di scambio si contraggono fino alla quasi scomparsa, le piccole unità produttive si rinchiudono in se stesse diventando di necessità autosufficienti o quasi. È il noto modello autarchico degli stazzi. I nuclei familiari che s’insediano progressivamente nelle vaste lande semi deserte della Gallura hanno storie, cause e motivazioni diverse a dar conto della loro scelta, che contraddice la precedente economia su base comunitaria in ambito mercantilistico.
Abbiamo di fronte, nell’Ottocento, una Gallura quasi interamente pacificata, orgogliosa del suo benessere e invidiata dai pastori della Sardegna pastorale, che consideravano ricchi i galluresi degli stazzi mentre, a loro volta, erano sempre alla perpetua ricerca dei pascoli per le loro greggi e tendevano ad occupare quegli spazi che si rendevano liberi, ovunque si trovassero, anche se a titolo oneroso pur di alimentare e mantenere in vita faticosamente le loro greggi e, con esse, se stessi. Uomini che ripetevano attraverso i millenni gli stessi gesti e la stessa attività con metodi definibili primigeni.
Certo per un lungo periodo erano rimaste tensioni e inquietudini, quando i massai dei villaggi rivendicavano con forza il loro diritto alla scelta dei suoli più fertili (vidazzoni) per seminarvi i cereali; quando i pastori transumanti reagivano con violenza a chi, di fatto, impediva loro l’attraversamento dei salti alla ricerca del pascolo, a chi sbarrava le cursorie, le filadas delle greggi. Tutti ritenevano abusive le appropriazioni, con recinzione persino delle fonti o comunque delle acque sorgive e dei rii, come pure dei boschi di querce e di olivastri, pur se ne era fatto divieto dall’Editto delle Chiudende (vedi seconda parte, N.d.A.). La violenza dello scontro in atto sfociava non di rado in delitti, difficili da perseguire e da punire.
La Gallura – con la sua natura aspra, i suoi boschi impenetrabili e l’assenza di vie di comunicazione – era un ricettacolo di torme di banditi e di fuggiaschi. Quando anche un drappello di militi, dopo una segnalazione, muoveva da Tempio alla ricerca dei più feroci, impiegava giorni a raggiungere il luogo indicato e i fuorilegge ricercati ne erano avvertiti con largo margine di tempo. Alle imprese dei facinorosi, che i vari Viceré – alieni dal pensare a cause sociali – consideravano solo pendagli da forca, si aggiungevano le inimicizie (li ‘nnimmistai), le faide tra famiglie organizzate in veri e propri clan. Sempre tese a difendere chiunque dei suoi membri fosse leso nei suoi presunti diritti.
Spesso le ostilità si scioglievano per l’intervento della Chiesa che faceva opera di convincimento presso le famiglie, tendeva a smussare i motivi del contrasto, sapeva mostrare i vantaggi dell’armonia ritrovata, metteva tutti di fronte a responsabilità che nella foga dell’odio non si volevano riconoscere e, infine chiamava tutti al perdono e alla concordia, li Paci, le Paci. Li Paci, che volevano interrompere e mettere fine alla scia di sangue che decimava i membri di molte famiglie estese, si svolgevano in un clima di solennità, di fronte ai simulacri dei Santi, alla presenza delle autorità religiose e di tutti i componenti dei clan. I capi famiglia, divisi fino al giorno prima da un odio mortale, muovevano uno incontro all’altro, si stringevano con forza le mani e si abbracciavano di fronte a tutti, pronunciando formule di pentimento e di perdono. Non mancavano momenti di vera commozione. Se vi erano ritrosie erano le donne, molto persuasive, a imporre l’accettazione della pace, come pure erano state le donne, che non volevano più vedere i loro figli ammazzati, a preparare il terreno e le modalità della cerimonia. (Tra gli autori che ne parlano: G. Ricci, M. Scampuddu).
Tutte queste torbide vicende, hanno rappresentato il momento epico della barbarie, ma le numerose famiglie dei pastori degli stazzi che tendevano a stabilirsi in vicinato in aree precise, dette poi cussorge (le cursorie o li cussoggji, dette anche li custagli se lungo i pendii), coltivavano l’aspirazione a vivere in armonia e godere del loro relativo benessere. Ben presto, infatti, la Gallura venne considerata un’isola di pace, risultato cui non è estranea la costante presenza femminile e la necessità di educare in un ambiente sano e sicuro le numerose discendenze filiali. I moti violenti sono spenti già nella seconda metà dell’Ottocento. Rare le fiammate e facilmente disinnescabili.
Questa è la Gallura che abbiamo conosciuto e amato noi, bambini nati durante l’ultima guerra. La sua cultura era basata sul ciclo del grano, coltivato e consumato ricorrendo alla semplicità dei mezzi di produzione e dei sistemi di scambio, e sull’allevamento bovino e caprino. Risorse differenziate e integrate. La sovrastruttura del modello economico rappresentato dagli stazzi, cioè la cultura materiale e spirituale che questo tipo d’insediamento rurale ha prodotto, è stata descritta in numerose opere (S. Brandanu, G. Doneddu, M. Fresi, G. Mele, Q. Mossa, A. Pirredda).
Questa cultura ha rappresentato e continua – in forme attenuate e in parte mutate – a rappresentare la tradizione. La Gallura, per lo spirito di conservazione dei suoi abitanti, per i comportamenti da reazionari che non tollerano mutamenti di alcun genere, men che mai che venga messa in discussione la sacralità e l’inviolabilità della proprietà privata – per un certo cattolicesimo esibito anche se non sentito – è stata considerata da diversi autori, appunto per il suo tradizionalismo, la Vandea bianca della Sardegna, feudo politico dei conservatori ed elettorale della DC dal secondo dopoguerra e per gran parte del ‘900.
A voler fare un elenco – bruto fino alla superficialità e disordinato, del quale ogni voce andrebbe illustrata nella sua specificità – di alcuni elementi che costituivano tale cultura, si possono citare: il rispetto reciproco tra persone che si consideravano eguali; l’accoglienza e l’ospitalità che non guardava condizione o stato sociale degli ospiti; la disponibilità ad aiutare liberamente vicinato e parentado quando necessitava; una considerazione di sé che non indulgeva a sentimenti d’inferiorità e neppure di superiorità, ma che portava a ragionare solo in termini di differenza caratteriale, di condizione, di reputazione; la difesa ostinata della proprietà e il continuo impegno per mantenerla intatta o ampliarla; il forte e largo legame parentale, evocato e atteso spesso a dare sostegno in solido a chi dei membri ne aveva bisogno; la cautela nel prendere decisioni difficili; la grande stima in cui erano tenute alcune relazioni non parentali, come nelle varie forme di comparatico (la cumparìa); il valore e la sostanza dati agli incontri comunitari in occasione delle celebrazioni dei santi nelle numerose chiese di campagna; il rilievo dato alle varie circostanze di tipo cerimoniale che segnavano l’annata agraria (l’aglióla, la bibenna), come pure ai momenti fondamentali della vita (lu battisgimu, la pricunta, l’affidu, lu cóiu) e alle tappe dell’anno liturgico, tutti celebrati con una solennità originale (Pasca, li Tre Irrè); la cucina tipica e le varie arti legate al modo e al mondo della produzione; le conciliazioni affidate a uomini saggi ed equanimi (li rasgioni); il riguardo nei confronti dei mendicanti, accolti come ospiti e partecipanti alla mensa comune eccetera…
Giusto per fare un esempio e dare un’idea del senso dell’ultima frase, aggiungo che spesso negli stazzi più prosperi si radunavano per lunghi periodi delle vere e proprie “Corti dei miracoli”: girovaghi, mendicanti, servi pastori, ambulanti, artigiani, maestri itineranti che insegnavano a leggere e scrivere ai figli dei “pastori possidenti”, parenti, diseredati, poeti estemporanei, musici. A tutti era garantito un tetto e l’accesso indifferenziato alle riserve alimentari della casa. In cambio, svolgevano piccoli lavori di manutenzione, davano una mano in operazioni agricole complesse (mietitura, vendemmia e semina), vigilavano sulle greggi, oppure semplicemente allietavano con la loro rumorosa allegria la temporanea brigata pastorale.
Nei nostri villaggi e nelle nostre campagne, fino a non molti decenni or sono, gli usi e i costumi, trasmessi dalle reti parentali e dal corpo sociale nel suo insieme, erano fatti propri dalle generazioni che si succedevano come se fossero un dato immutabile. La tradizione permeava e permea, anche nella trasformazione, la società fin nelle fibre più intime. I mutamenti per decenni sono stati graduali e facilmente armonizzabili con il complesso degli usi consolidati. Solo dagli anni ‘60 del secolo scorso si è assistito ad una tale accelerazione nei mutamenti dei costumi che rischia, anzi talvolta ambisce, di staccarsi dalla tradizione e dai suoi insegnamenti.
Infatti, tradizione è, per definizione da dizionario, trasmissione nel tempo di notizie, memorie, consuetudini da una generazione all’altra attraverso l’esempio, le testimonianze e gli ammaestramenti, orali o scritti. Le tradizioni sono fortemente condizionate e caratterizzate dalla storia di una comunità e dalla natura a contatto della quale la stessa si trova a vivere. E quale potesse essere la tradizione in Gallura, anche se non lo si evince, si può intuire da quanto abbiamo scritto in queste brevi note. La rarefazione nel territorio e dunque il senso d’isolamento e di solitudine e, allo stesso tempo, la difficoltà di gestire singolarmente i mezzi e le attività secondo norme funzionali alle forme di produzione ne hanno costituito il carattere.
Noi bambini negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, poi adolescenti e giovani adulti, abbiamo sempre pensato che quella società, quella cultura fosse un immutabile dato della natura. Neanche si riusciva a immaginare qualcosa di diverso. I piccoli mutamenti graduali, che pure nel confronto col vasto mondo esistevano, non erano avvertiti. Né esisteva la paura che qualcosa di repentino e incontrollabile potesse sconvolgere il complesso delle tradizioni della piccola, soddisfatta società gallurese. Tutti, proprietari e fittavoli, traevano benefici. L’anno trascorreva fra vendemmie, mietiture, riti originali dei battesimi e dei matrimoni, ben quattro Pasque (di Natale, dei Tre Re, d’Aprile, di Fiori), novene e celebrazioni religiose partecipate e vissute in letizia. Un gran numero di feste campestri in onore dei santi, venerati nelle numerose chiesette sparse per tutte le campagne, momenti d’incontro ineludibili perché, in quelle circostanze, si stringevano accordi di varia natura. Nascevano relazioni sentimentali, si prendevano accordi sui patti agrari, si parlava di tutto quanto concerneva la vita dell’epoca: di cavalli, di cani, di caccia, di donne, di uomini, di cerimonie, di balli e divertimenti, di religione, di massimi sistemi… Tutto rapportato alla semplicità di quanto si aveva a disposizione.
Purtroppo i conti con la modernità, per noi discendenti dei pastori contadini, si devono fare, e senza dubbio l’unica forma esistente di razionalità ordinatrice del mondo è data dall’imponente edificio della scienza e della tecnica, che portano con sé industria e mercato, con la loro forza d’urto travolgente. Voler presentare gli stazzi di Gallura come criterio di civiltà da opporre al consumismo omologante, o al mutato quadro economico, avrebbe il significato di fare affidamento su un argine fragile. Diverso è opporre la lezione che dagli stazzi viene, che è quella di una forte volontà a far da sé con robusto spirito autonomistico, la costante resistenza a tutto ciò che dall’esterno si presenta con il volto dell’imposizione, il sentimento della comune matrice occidentale e cristiana, la coscienza dell’esigenza di un riscatto dalla subalternità.
Improvvisamente, nel giro di pochi anni, quello che sembrava immutabile e che niente potesse scalfire, è stato spazzato via. Il mondo degli stazzi non esiste più. La Gallura è entrata nel modello di produzione capitalistico (produzione e consumo nel libero mercato), come area assistita e soggetta agli scambi ineguali, all’interno di una più vasta area. L’ingresso in un nuovo stile di vita è stato brusco, senza scelte e senza sequenze di successivi adattamenti. La base materiale di quelle forme di produzione, dei rapporti e relazioni, fondamentalmente preindustriali, instauratasi tra i pastori-contadini, è venuta meno e con essa hanno perso significato o sono scomparsi quei termini, intere famiglie lessicali, che la definivano o quei comportamenti che la caratterizzavano. Nel migliore dei casi sono divenuti folklore.
Le cause di questo improvviso declino fino all’estinzione sono molteplici.
L’economia agricola gallurese era un’economia di sussistenza. Cioè il lavoro non era svolto in vista di un profitto da reinvestire (economia di mercato, poi globalizzata), ma il contadino lavorava per sfamare e vestire se stesso e la propria famiglia, e mantenere decoro e apprezzamento all’interno della piccola comunità di appartenenza, ossia tendeva unicamente al minimo livello di benessere materiale e al massimo di gratificazione culturale. Il modello produttivo era organizzato in modo tale da rappresentare un microcosmo economico chiuso in se stesso, autosufficiente, per quanto possibile, e indipendente dalle oscillazioni di mercato. E’ ovvio che così era attrezzato a resistere egregiamente in caso di carestie o altre calamità.
Ma di fronte alle sfide del mercato globale non poteva essere che soccombente. La grande distribuzione rendeva superflui i prodotti degli stazzi, che erano molto lontani dal poter competere con le derrate o le merci in arrivo dagli USA, dal Canada o dall’Unione Sovietica.
La meccanizzazione rendeva un’eccedenza, un sovrappiù, la permanenza dell’intera famiglia con compiti differenziati sul fondo agricolo, perché un solo trattore era in grado, nell’arco di un’unica giornata, di svolgere una quantità di lavoro che prima richiedeva un impegno magari stagionale e dunque l’organizzazione aziendale non era all’altezza di sostenere nessuna sfida.
Al di là dell’innegabile effetto omogeneizzante dei mezzi di comunicazione di massa sui comportamenti di gruppi sociali marginali, quale possiamo considerare quello gallurese, una potente trasformazione è stata effettuata dall’impiego di capitali, orientati a trasformare l’economia, che hanno risucchiato volontà ed energie richiamandole dalle attività agricole e di allevamento (fino allora dominanti) e dirottandole ad altri compiti legati al terziario e alla fornitura di servizi per l’industria delle vacanze di lusso.
La costituzione del Consorzio Costa Smeralda nella zona Nord-orientale dell’Isola, ad opinione di molti, per l’avvio delle molteplici attività legate al turismo, ha rappresentato una brusca interruzione del modo di vivere negli stazzi, se non ha determinato addirittura un vero e proprio mutamento antropologico tra le genti della Bassa Gallura. Ha, infatti, stravolto modi e rapporti di produzione negli stazzi, spostando l’interesse economico su attività che hanno trasformato assetti sociali consolidati, decretandone la fine.
Il conservatorismo, tipico del mondo rurale – dovuto alla tradizionale diffidenza per tutto ciò che viene dal di fuori, risultato di innumerevoli esperienze negative di sopraffazione e sfruttamento, ma dovuto anche alle condizioni prolungate di isolamento e privazione di relazioni culturali formative, adeguate ai tempi – non ha consentito di capire la presenza improvvisa di innumerevoli novità o di tentare di adeguarsi al nuovo corso delle cose.
I tempi nuovi e la modernità sono stati, in qualche misura, riduttivamente annunciati dalla famigerata De Marzi-Cipolla che, nei primi anni ‘70, ha cambiato i rapporti tra fittavoli e proprietari generando, in tutta la Gallura, un moto di ripulsa e determinando atteggiamenti passivi contrastanti tra le due parti: i fittavoli non hanno interesse alle migliorie perché verrebbero eseguite su fondi che non appartengono loro, i proprietari non vanno oltre rivendicazioni generiche al pieno possesso, perché ritengono di non poter gestire un’azienda gravata da presenze che sono diventate ope legis inamovibili. La rendita parassitaria in qualche caso è stata colpita, come era nella ratio della legge, ma non eliminata, perché chi in qualche modo si è sostituito ad altri nella proprietà, talvolta ha imitato più le inerzie di chi lo ha preceduto che i modi dinamici e proficui auspicabili nel cambiamento.
Non abbiamo mai pensato a un anacronistico impossibile ritorno di una realtà che risulterebbe estranea o superflua ai rapporti economici attuali. Una realtà tuttora in dissolvenza, presente ma evanescente. Una nebbia dove i contorni delle cose sono vaghi. Rimangono molte parole del vocabolario giornaliero antico ma prive di pregnanza di senso, a causa della dissoluzione degli oggetti e delle situazioni che definivano concretamente fino a ieri.
Né, tuttavia, vogliamo essere esaltatori della bontà dei tempi antichi. Sappiamo che, come ora, anche un secolo fa esistevano realtà conflittuali degradate, le cui piaghe e i limiti fondamentali: insicurezza, carestie, malattie, siccità, povertà, allora più di oggi mietevano vittime. Il presente articolo vuole solo essere il racconto di una storia dalla sua nascita fino al suo epilogo e un richiamo (o una riflessione) su ciò che di utile potrebbe sopravvivere del mondo dei pastori e dei contadini della Bassa Gallura, valutare la possibile utilità di ciò che resta almeno nella memoria o nei comportamenti abituali e irriflessi delle persone, il peso che questa eredità può avere nell’interpretazione dei fatti e degli eventi, nel modo di vedere se stessi e gli altri, di valutare le difficoltà della propria vita, la capacità di dare ordine logico alle esperienze attuali.
A quali fenomeni di acculturazione, per usare un termine negativo vicino al reale svolgimento dei fatti, o a quali fenomeni di evoluzione culturale, in questa fase di repentini mutamenti, abbia dato luogo l’introduzione, pressoché forzata (poiché non c’erano difese, non elaborazioni critiche) di un modello economico così distante dall’esistente, lasciamolo dire alle opere specializzate in ricerche sociologiche. Nostro scopo è qui quello di presentare le linee di una vicenda secolare, dal momento aurorale alla sua conclusione, avvenuta senza strepiti e senza clamore. Una fine quasi inavvertita, silenziosa. Vissuta senza rimpianti.
Stupisce certamente la vistosa cancellazione dalla memoria storica della plurimillenaria esperienza comunitaria di gestione dei fondi agricoli e delle attività pastorali, che si conclude con l’accettazione acritica di modelli esterni. Si consideri poi che i due momenti più alti della civiltà sarda – il lungo periodo nuragico e la plurisecolare esperienza giudicale – si sono realizzati quando i Sardi hanno trovato lo spazio e la capacità di organizzarsi e agire in piena autonomia e maturità. Va riconosciuto che alcuni di questi caratteri, autonomia e maturità appunto, sono riconducibili, pur considerandone gli aspetti originali e riduttivi, anche all’esperienza degli stazzi di Gallura che, purtroppo, né si sono evoluti in aziende capaci di differenziare le produzioni e resistere sul mercato, né sono stati capaci di sottrarsi ai ricatti del mercato.
Ma è sempre vero che degli avvenimenti, anche quando il loro ciclo è giunto al termine, rimane una traccia, della quale fa parte la nostra rievocazione, come un rumore di fondo, un fondale indefinibile dove i contorni sono indeterminati, una presenza affievolita, avvertibile attraverso ricordi, memorie, scampoli di attività ancora vive. Ovviamente la lingua rimane come un deposito di quel che è stato, in cui le parole conservano – anche nel suono oltre che nella semantica – una reviviscenza inaspettata. Su questo e sul fatto che oggi anche i consumatori di cultura chiedono genuinità, ritorno ad una condizione più naturale e più autentica, qualcosa di ancora vivo si muove, conservando e rinnovandosi. Il culto o la moda, ma, più veridicamente, la necessità di conservare la biodiversità, rende la Gallura interessante per tutti quei cultivar che, nel corso dei secoli, sono stati selezionati e per tutte quelle specie animali addomesticate e presenti. Quale sia il futuro, non è facile prevedere.
(Segue)
Quintino Mossa, laureato in Pedagogia presso l’Università Cattolica di Milano, ha insegnato per decenni in tutti gli ordini e gradi della scuola pubblica. Per incarico del Ministero per gli Affari Esteri è stato dirigente scolastico con compiti di promozione per la conoscenza e la diffusione della Lingua Italiana nella Patagonia argentina andina. Da tempo si interessa di raccontare il complesso delle tradizioni della Gallura, per conservare e valorizzare quelle a rischio di oblio.